ELENA SCOLARI | Splendide, giovani, slanciate, eleganti. Donne? No, mucche. In leggeri abitini fiorati, tutte con orecchini gialli numerati (come i marchi sulle orecchie del bestiame), campanaccio al collo, una treccia di lana come coda e un cerchietto con le corna. E reggiseni molto molto imbottiti.
Sei bravissime attrici hanno osservato e imparato a imitare l’andatura lenta, un po’ sghemba, a volte tremebonda di questi bovini, e si muovono armoniose sul palco ora come in un pascolo ora come in una stalla. C’è anche un toro, Vilis Daudzins, visibilmente confuso da questo harem campestre.
Black Milk (Melnais piens) del regista lettone Alvis Hermanis – direttore del New Riga Theatre dal 1997 –  è uno spettacolo poetico, forte, ironico, pieno di tenerezza e dotato di un fortissimo senso del teatro: le sei attrici sono mucche niente affatto ridicole e assai credibili, movenze, espressioni e gesti rendono inequivocabile il parallelo elettivo tra i sentimenti umani e quelli animali. Siamo di fronte a una visione divertita ma seria dei rapporti di affinità che si possono creare tra una fattora e la propria bestia, metafora chiara della profondità emotiva che nasce solo dall’attenzione e dalla lenta vicinanza tra creature viventi.
E se questa si perde allora le mucche protestano, con appesi al collo cartelli con la scritta “in India”!

truogolo

Hermanis sceglie una rappresentazione stilizzata del mondo rurale per dirci che stiamo perdendo il contatto con gli aspetti più viscerali della vita: il ritmo della natura, l’aggressività, la fragilità e l’immensa potenza della nascita, la gestione delle separazioni e della morte, l’appartenenza a una specie, che sebbene umana ritiene in sé una forza animale che non vogliamo più riconoscere. Non sembri un’ingenua o pasoliniana ode della campagna e della semplicità, qui si parla di macelli, di sangue, di donne che aiutano le vacche a farsi montare perché sanno cosa bisogna fare e conoscono i comportamenti degli animali, di contadini che guadagnano una miseria perché sono costretti a svendere il latte, ma soprattutto si parla del nostro moderno ribrezzo verso tutto ciò che non è patinato, smussato, levigato, inzuccherato, scremato.
La comodità è regina, fino all’inutilità stupida dell’aria condizionata polare accesa appena si superano i 22° o dei distributori automatici che vendono arance già sbucciate. Oibò! Stiamo veramente andando in vacca, è il caso di dirlo.
Ma lo si dice senza mai perdere di vista la grazia degli abiti fiorati, campagna sì ma non rozzezza.

Lo spettacolo è in lingua lettone e il regista ha deciso di fornire tutti gli spettatori di cuffie preferendo la traduzione simultanea del testo alla lettura dei sopratitoli. Pur capendone le motivazioni pratiche questa scelta non convince: non sentire le voci, le intonazioni, non sentire la musicalità della lingua e non percepire come le voci si muovono sulla scena toglie un po’ la specificità “qui e ora” del teatro, anche se si fosse persa qualche battuta non si sarebbe perso il senso, caldo, di ciò che avveniva sul palco.
La bellissima scena del parto, per esempio, in cui una delle attrici scalcia tremante stesa sotto le gambe di un’altra e poi tutte insieme sorreggono il vitellino fatto arrotolando un lenzuolo.

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La favola serale raccontata al truogolo dove le mucche ruminano mele finché si addormentano una addosso all’altra. O ancora la storia archetipica del bovino femmina che spaccherà le catene per andare verso il suo toro e morirà sgozzata per lo slancio d’amore che l’ha fatta impigliare nel filo spinato.

Il Black Milk del titolo è il latte nero che misteriosamente si produce dopo una maledizione, come fosse la perdita ultima del carattere lettone. La compagnia ha svolto un lungo lavoro di studio e ricerca nelle aree rurali della Lettonia ritrovando lì, e non in città, l’identità di una nazione: “Quando l’ultima nonna lettone avrà consegnato l’ultima mucca, la Lettonia autentica sarà solo cosa del passato”, dice Hermanis.
Il testo, per quanto si può dire dalla traduzione italiana, non vuole ricercatezze, porta le idee cardine senza fronzoli, lascia al pubblico di leggervi il senso, un lavoro supportato da un gruppo di attori eccellenti, per espressività e precisione.
Regia, luci e suoni dello spettacolo sono netti, mai ridondanti, sostengono senza retorica. In particolare Hermanis dirige la “mandria” alternando racconti e dialoghi su ricordi di stalla, anche di tono tecnico/agrario, a parti più coreografiche e di movimento, tutte molto curate.
Bello il diario dell’uomo che lavora in un macello e ha faticato ad abituarsi a questo mestiere ma poi ha capito che è un lavoro, un po’ particolare, sì, ma un lavoro, certo meno artificiale di altri.

In Black Milk si può ritrovare una certa consonanza con il recente Battlefield di Peter Brook, che si chiude con il suono di un tamburo, non una musica ma un suono primordiale, il battere della terra, che mette in contatto con qualcosa che non si può dire. Il segreto del mondo è un sussurro e si può sentire anche in un muggito.

 

BLACK MILK
con Jana Civzele, Iveta Pole, Liena Smukste, Sandra Klavina, Kristine Kruze, Elita Klavina, Vilis Daudzins
luci Lauris Johansons
suono Gatis Builis
regia Alvis Hermanis
produzione The New Riga Theatre
visto al CRT Teatro dell’Arte

1 COMMENT

  1. Spero che attori e registi italiani (non tutti, ma un bel po’) dopo aver visto questo spettacolo abbandonino la professione teatrale.

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