MARIA FRANCESCA SACCO | Il viaggio che intraprendiamo questa sera va da Moskwa a Pietuszki. Siamo in Russia, dunque.
E’ un viaggio scomodo, in uno sporco vagone di treno, nel buio di un silenzioso scompartimento e nello scuro fragore dei pensieri del protagonista, interpretato da Jacek Zawadzki. Moskwa-Pietuszki, il titolo della piesse, e’ lo spettacolo che ci propone questa sera l’Istytut Grotowskiego di Breslavia con la regia di Zygmunt Duczyńskiego.
Il testo di riferimento e’ il romanzo del russo Venedikt Erofeev che racconta del viaggio di un intellettuale alcolizzato, Venya, che ha perso il proprio lavoro e si sta dirigendo verso la citta’ di Pietuszki, per ricongiungersi con il suo caro figlio.
La scena si presenta buia perlopiu’, illuminata solo da una fioca lampadina che si accende a stento attraverso il soffio di vita dell’attore. La valigia e’ l’unico elemento che ci fa pensare ad un presunto viaggio; per il resto abbiamo un tavolo e uno specchio, che simboleggia un finestrino, forse. Semplice e spoglia, perche’ tutto il resto sara’ costruito dalle parole del personaggio nel suo turbinio di folli racconti e bizzarre associazioni da vecchio ubriaco. Nonostante gli intermezzi in cui il personaggio si attacca alla bottiglia di vodka e si esibisce in «ciondolamenti» da russo alcolizzato, la voce impastata e tutto il necessario per suscitare nel pubblico simpatia e risate, malgrado a volte sia sembrato una caricatura poco originale di qualche beone incontrato per strada, nonostante questo, dicevo, il viaggio assume un potente valore metaforico. Venya descrive la sua meta come un giardino dell’Eden, un paradiso, un posto che stentiamo a credere davvero esistente. Nello stesso momento in cui capiamo che questa citta’ non puo’ esistere nello splendore etereo narratoci, allora ci rendiamo conto che il piano su cui ci siamo spostati e’ quello simbolico. La nostra mente da questo momento riuscira’ a vedere nella valigia una bara, nella lampadina che pende dal soffitto un cappio che ci anticipa la tragedia nella quale siamo incappati.
Come nella Divina Commedia Dante attraversa l’Inferno e il Purgatorio per giungere trionfante e purificato in Paradiso, cosi Venya affronta il suo personale viaggio dall’inferno della sua vita, desiderando giungere alla pace e alla gioia alla quale, pero’, non arrivera’ mai: verra’, infatti, assassinato alla stazione da un gruppo di teppisti. Questi, se leggiamo il testo nel periodo in cui fu scritto potrebbero simboleggiare i 4 colossi del comunismo: Marx, Engels, Stalin e Lenin.
Anziche’ da Virgilio, il russo e’ preso a braccetto da una bottiglia di Vodka, coscienza e guida, fonte di visioni e vaneggiamenti. Una riflessione sull’uomo che non cerca redenzione per la sua anima, ma un piccolo cantuccio pacifico dove riposarsi, dopo aver trascorso la sua esistenza tra alti e bassi, tra tormenti e fantasmi di un passato che non si cancella.
Il ritmo sembra imitare l’andatura del treno sul quale viaggia Venya: momenti di rallentamento, in cui il monologo si fa pieno di pathos, si alternano ad altri, ben piu’ concitanti, allegri, briosi, come se la locomotica sfrecciasse attraverso lande sconosciute senza potersi piu’ fermare. Queste ultime parti, soprattutto sono quelle, gia’ citate, in cui il personaggio assume quella maschera caricaturale dell’ubriaco per spezzare il ritmo, per alleggerire, per ridere su luoghi comuni: il risultato, prevedibile, arriva in un consenso del pubblico che ride compiaciuto. Nonostante la bravura indiscussa dell’attore, solo in scena, la tecnica dell’arruffianamento del pubblico, poteva essere evitata mostrando il personaggio ubriaco, certo, ma senza estremizzarlo oltremodo.
In questo viaggio della vita, comunque, se ne esce sconfitti e disperati, perdenti e non redenti, come il nostro Dante. Finisce con la morte e l’ultimo respiro esalato dall’attore e’ per spegnere la fioca lampadina e lasciarci tutti nel buio, un po’ morti anche noi.
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