ELENA SCOLARI | “Sta tutto nella vostra testa, sta tutto nella vostra testa”. Così ripete il mago pastore Cosma Damiano. Ma non è un personaggio di Haruki Murakami, che popola di uomini pecora i suoi romanzi, è invece il ruolo demiurgico che Mino Decataldo interpreta in La beatitudine di Fibre Parallele.
Il suo nome unisce i due santi medici Cosma e Damiano, fratelli nati a Costantinopoli e facili alle guarigioni miracolose, diffusamente venerati in Puglia, la regione d’origine della compagnia.
Tramite il mago lo spettacolo propugna l’idea che il teatro sia una truffa (idea già cara a Diderot, per precisione storica) poiché costringe il tempo e lo spazio dentro una finzione, e con gli attori gli spettatori sono prigionieri consenzienti di questo inganno.
Nulla ci vede più d’accordo, cari lettori. Già altre volte abbiamo esposto la nostra profonda convinzione che entrando in teatro lo spettatore firmi un tacito accordo di connivenza con gli attori, promette che crederà a ciò che vedrà. Un falso dichiarato che diventa più vero del vero. Sta tutto nella nostra testa, appunto.
La geometria de La beatitudine è composta da due coppie (più il mago): una madre affettuosamente opprimente col figlio in carrozzella (Lucia Zotti e Danilo Giuva) e due coniugi (Licia Lanera e Giandomenico Cupaiuolo) legati da un figlio fantasma, un bambolotto di plastica per sostituire il loro bambino nato morto.
Le cose non vanno granché bene né di qua né di là: il figlio disabile ha problemi sia con l’ascensore sia con mammà, che tanto bene gli vuole ma non sa capire che ormai è un uomo e vuole la sua libertà, nell’altra coppia è facile immaginare che l’architettura di una famiglia costruita sulla tragicomica presenza di un figlio manichino non può che sgretolarsi e portare guai. Primo perché il suddetto bambolotto si ostina a non aprir bocca per mangiare e poi perché i due non vanno più a letto insieme, lui non lavora e lei passa molto tempo al centro di volontariato. Chiaramente per dare il suo amore di madre mancata. A tutti i bisognosi tranne che al marito. La beatitudine del titolo è una fuggevole chimera.
Potrebbe sembrare un dramma borghese in salsa pugliese, ma La beatitudine è più originale, il modo in cui le due coppie fatalmente si incontrano e si intrecciano è ironico, poetico, simbolico e un po’ assurdo. E sarà frutto di una profezia del mago pastore.
La donna più giovane si invaghirà dell’uomo in carrozzella conosciuto al centro, in una scena cardine cercheranno di consumare il loro desiderio in un comico amplesso funestato dalle scomodità di cervicale e sedia a rotelle. La vecchia madre e il giovane marito disoccupato si incrociano invece per ragioni di pedinamenti, saranno colpiti da insolita passione e la splendida 80enne Lucia Zotti si lancerà in uno spogliarello travolgente e gioioso.
Tutti gli attori sono bravi: Licia Lanera è carnale, focosa, volitiva e divertente, Lucia Zotti è radiosa e leggiadramente canzonatoria, entrambe mostrano i loro corpi forti di verità, Giandomenico Cupaiuolo è cinico e irridente nel suo essere indolente e incazzato, Danilo Giuva è inquieto e seducente e il mago pastore di Mino Decataldo è un vaticinatore visionario e distaccato.
La scena è occupata solo da un tavolo, il desco di un nucleo familiare fasullo, una pila di piatti vi campeggia, presagio di rottura. Tutti sono vestiti di nero e dietro di loro è proiettata la scritta beatitudine in un corsivo elegante. Uno spazio riempito dalla prorompente presenza umana dei personaggi, carichi di una tensione che sentiamo esploderà.
La scrittura scenica di Lanera e Spagnulo è bella, il testo e la regia donano carattere preciso ai ruoli e compongono una struttura di dialoghi che guida nelle nevrosi e nelle debolezze delle quattro “pecorelle”, mosse dal mago/pastore demiurgo.
Gli attriti tra i personaggi, evidenti fin dall’inizio, deflagrano in un finale dove tutto va in frantumi: i piatti, i rapporti, i sentimenti, le vite e le certezze.
L’eros, la spinta naturale verso il sesso come unica forma di espressione vitale e vera finisce qui in un gorgo tragico, in cui tutti soccombono ai propri istinti e in cui la fragilità fragorosa dell’irreale è mostrata a suon di cocci scaraventati.
Un finale talmente chiaro che non avrebbe bisogno delle spiegazioni che invece ci vengono date, il mago Cosma Damiano chiude lo spettacolo con una chiosa superflua, si sa che un Demiurgo non ha bisogno di parole. La beatitudine è un pensiero penetrante e incisivo sul senso del teatro e sulla consapevolezza di quanto questa finzione ci sia necessaria.
La beatitudine, visto al festival Wonderland di Brescia, organizzato da Residenza I.DRA.
di Licia Lanera e Riccardo Spagnulo
drammaturgia Riccardo Spagnulo
con Giandomenico Cupaiuolo, Mino Decataldo, Danilo Giuva, Licia Lanera, Lucia Zotti
luci Vincent Longuemare
spazio Licia Lanera
assistente alla regia Ilaria Martinelli
tecnico di palco Amedeo Russi
foto Rosaria Pastoressa
organizzazione Antonella Dipierro
regia Licia Lanera
produzione Fibre Parallele, coproduzione Festival delle Colline Torinesi, CO&MA Soc. Coop. Costing & Management e con il sostegno di Consorzio Teatri di Bari – Nuovo Teatro Abeliano