BRUNA MONACO | Un piccolo rialzo al centro del grosso palcoscenico del Teatro Argentina. Un palco sul palco, è così che Strehler cita Pirandello e mette il teatro al centro del suo spettacolo, fa meta-teatro. Senza elucubrazioni da filosofo, ma alla maniera pratica, visiva, da vero regista. Dal 1947, anno del debutto dello spettacolo, a oggi, si sono susseguite più di dieci versioni. Ognuna è l’evoluzione della precedente. Sono cambiate le scenografie, i registri recitativi, le maschere, gli attori, le atmosfere. Per Strehler l’Arlecchino servitore di due padroni è stato terreno d’elezione di una ricerca sull’attore e sul teatro. Un terreno fertile che ha dato negli anni frutti gustosi per palati raffinati, e non. Parlando di meta-teatro è sicuramente la versione del 1963 la prima a venire alla mente, quella denominata “edizione dei carri” (che vide per la prima volta in scena Ferruccio Soleri nel ruolo ufficiale di Arlecchino), rappresentata all’aperto nella Villa Litta ad Affori, vicino Milano. Ai margini della scena, defilati eppure protagonisti, campeggiavano due carrozzoni da compagnia di giro, di quelle in cui vivevano e con cui si spostavano i teatranti fra ‘400 e ‘700. Da quei carrozzoni uscivano gli attori che interpretavano il ruolo d’attori con una recitazione naturalistica, e una volta sul palchetto sopraelevato, la loro ribalta, si trasformavano negli esuberanti Arlecchino, Brighella, Florindo, Beatrice.
In quest’ultima versione vista al teatro Argentina la scenografia è modesta, stilizzata, vicina alle primissime edizioni: su un fondale che chiude sul retro il palchetto, scorrono come davanti a una finestra drappi dipinti: la casa di Pantalone de’ Bisognosi, la strada che dà sulla porta della locanda di Brighella, l’interno della locanda. Ma anche qui ciò che più balza agli occhi e pare interessante è quel che circonda lo spettacolo, la dimensione meta-teatrale: seduto ai bordi della piccola ribalta un suggeritore dialoga con gli interpreti della commedia goldoniana che per far vivere le maschere costringono anche il corpo e la voce a posture innaturali, nettamente extra-ordinarie. E questa differenza di registro interpretativo lo notiamo quando i “commedianti dell’arte” dal lavoro passano alla pausa: a scena finita, saltano giù dal palchetto, rilassano i muscoli, discorrono, si siedono, si insultano con fare naturalistico.
Gli attori sono eccellenti, perfetta la composizione dei quadri e sostenuto il ritmo generale dello spettacolo. Ma le voci arrivano flebili ai palchi di platea, alcune parti di dialogo sono incomprensibili e il piacere che viene dalla precisione e accuratezza di ogni dettaglio (dai costumi, ai movimenti alle luci) è in parte offuscato dalla sensazione che questo ennesimo Arlecchino servitore di due padroni sia un po’ sottotono. D’altronde sarebbe inevitabile il contrario: fra i tanti cambiamenti che hanno interessato lo spettacolo nel corso delle repliche e delle edizioni, c’è un’unica costante, Arlecchino, ovvero Ferruccio Soleri. Prima di lui solo Mario Moretti, l’Arlecchino melanconico e riverente che, morendo giovane, lasciò ereditare in fretta il proprio ruolo ad un allora giovanissimo Soleri che oggi, invece, a ottantatre anni, non si risolve a lasciare la scena e il ruolo di Arlecchino. È chiaro che negli anni e a furia di replicare in ogni parte del mondo uno spettacolo così fortunato e applaudito, il legame tra attore e personaggio si sia fatto indissolubile. Ed è vero che, nonostante la veneranda età, Ferruccio Soleri ha ancora una controllo del corpo e un’agilità invidiabili. È anche vero, però, che l’Arlecchino con cui Soleri ha conquistato e avvinto il pubblico internazionale era un acrobata dalla fisicità prorompente ed è forse questo il punto in cui si crea una crepa nell’identità attore-personaggio: può Arlecchino smettere d’essere un acrobata? Può Arlecchino smettere d’avere vent’anni e averne di colpo ottanta?
Il problema è che anche la drammaturgia si regge sul personaggio e che tutti gli altri attori, giovani e bravi, devono intonarsi al mattatore e tutto, così, si opacizza. Il problema è anche che in un paese come l’Italia in cui gli ottuagenari sono radicati ai posti di comando e non vogliono privarsene a nessun costo, lasciare gli eredi liberi di vivere ed esprimersi è anche un atto politico.

L’arlecchino servitore di due padroni nell’edizione del 1994:
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=BNrH0WFQPfk&w=420&h=315]