BRUNA MONACO | Cosa sono identità e appartenenza? Dove iniziano le origini di un essere umano? Se iniziano con la sua nascita, allora la risposta è semplice e Akram Khan è senza dubbio inglese. Ma qualcosa nell’aspetto dell’autore di Desh, acclamatissimo spettacolo che ha aperto il Romaeuropa Festival, tradisce un dubbio. Non il colore della pelle, non i tratti somatici o l’accento: Akram Khan ha il ritmo del kathak, l’antica danza del nord dell’India, nel sangue. Sangue bangladese, quello del padre e della madre emigrati a Londra anni fa. O meglio: nelle mani e nei polsi, nei movimenti circolari del busto e del collo, così come nelle improvvise pose statuarie che punteggiano l’andamento morbido e armonioso delle circonvoluzioni, in tutto ciò vediamo il retroterra dell’artista. Lì c’è il kathak. Ma nella parte inferiore del corpo di Khan il kathak si frantuma, si fonde in mosse da break-dance e arti marziali. Nel 2000, quando per la prima volta il danzatore anglo-bangladese fu ospite del Romaeuropa Festival aveva ventisei anni, era all’inizio della sua carriera e di una ricerca. Quella ricerca lo ha condotto allo stile ibrido di oggi, che è originale e gli corrisponde come il kathak da solo non potrebbe.

Desh, che in sanscrito significa terra natia, racconta a parole, a quadri, quello che lo stile di danza di Akram Khan, senza bisogno di supporti, già sintetizza e simboleggia: la convivenza degli opposti, e la necessaria, conseguente, rivoluzione contro quello che si potrebbe definire l’“ordine precostituito”. Cioè contro un’idea di ordine del tutto inadeguata ai tempi: quella che vive e ci racconta Khan è la condizione di una grossa fetta di popolazione mondiale, fatta di migranti, e di figlie e figli di migranti. La questione esistenziale riassumibile nell’antica dicotomia Oriente/Occidente, in Desh si concretizza attraverso un’altra ancestrale antitesi, quella generazionale, fra padre e figlio.
In questo assolo di ottanta minuti Akram Khan ripercorre i tratti salienti della propria vita inscenando dialoghi, imbattendosi in storie e aneddoti d’infanzia, creando personaggi: il padre dalla voce perentoria e l’accento incerto, curvo sulle spalle, il collo prominente, il suo volto è la testa glabra di Khan che con un pennarello disegna due cerchi, gli occhi, e una riga orizzontale, dritta, una bocca che non accenna a un sorriso ma porta un racconto truce e litiga col figlio troppo inglese che non vuole saperne della terra di famiglia in Bangladesh; la nipotina inglese 100% di cui sentiamo solo la voce, la sua presenza è evocata dai gesti da mimo di Khan che le prende la mano immaginaria, le allaccia le altrettanto immaginarie scarpe e a forza di immaginazione si ritrova catapultato nella fiaba che le stava raccontando, nella foresta monsonica, fra alberi, fiumi zattere ed elefanti, animazioni video proiettate su un telo trasparente.
Desh è marcato in ogni sua parte dall’idea della commistione. La commistione è dei linguaggi quando al corpo vivo di Akram Khan si sovrappongono animazioni video e voci registrate. Frammenti di teatro d’ombre e mimo e arti circensi (come quando, prendendosi fra le mani la testa glabra conciata a mo’ di viso paterno, la muove come fosse la sfera di vetro di un giocoliere). La commistione è degli artisti durante il processo di creazione: di Akram Khan sono direzione artistica, coreografia e interpretazione, ma l’équipe è numerosa e composta da personalità di rilievo. Fra gli altri Karthika Nair e Polar Bear all’ideazione e alla scrittura insieme a Khan, di Ruth Little è la drammaturgia, le musiche di Jocelyn Pook, le luci di Micheal Hulls e Tim Yip è il visual design.
Eppure, benché ogni componente dello spettacolo sia complessa, l’insieme risulta privo di ambiguità, quasi biunivoco il rapporto tra immagini e messaggi, didascalico. Come quando la nipotina dice di voler imparare il bengali e Khan le insegna un passo di kathak, per marcare il contrasto Oriente/Occidente, corpo/mente. O ancor più in uno dei quadri finali in cui Akram Khan si barcamena fra due sedie bianche, dal design minimal, una è enorme, alta due metri, inservibile. Piccolissima l’altra, scomoda, stretta. È il modo per ripetere, a gran caratteri (e imponenti come in generale tutta la scenografia dello spettacolo – di Sander Loonen) che è difficile trovare il posto giusto per sé, in certi contesti ci sentiamo troppo piccoli, inadeguati, altri ci stanno troppo stretti. L’unico modo per stare bene in un luogo è trasformarlo, adattarlo a noi, ed è quello che Khan fa con la sua sedia gigante, la sua Inghilterra.

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