chinamartini.jpgRENZO FRANCABANDERA | «Se ne vedono di tutti i colori… Donne che fanno cornuti facili i loro mariti… i commenda pancioni che vanno con le ragazzine minorenni… Magnaccia… prostitute… Gli ambigui, poi, quelli del terzo sesso! Quelli mi fanno proprio schifo… Sangue, stasera!», dice il Rospo, il capobanda.

Per prima cosa lo scrittore cercò la gioventù bruciata della città, i celebri teddy boys. Glieli presentò Umberto Simonetta,  paroliere di Giorgio Gaber che aveva un cugino, Giuseppe Pucci Fallica (il Gimkana), personalità di spicco di quella generazione (poi diventato manager a Mediaset). Pucci Fallica e Paolo Uguccione avevano 18 e 20 anni, e si vestivano alla James Dean.

Stefano Annoni è anagraficamente di un decennio più grande, ora; entra in scena in canotta aderente bianca e va al microfono, un microfono tipo quello di Modugno al Festival di San Remo. Diego Paul Galtieri, suo più pingue coetaneo si mette alla batteria. Prima battuta:  «Riprendiamo». Non assistiamo allo strip tease di Aïché Nanà al ristorante Rugantino di Roma,  pietra miliare nella storia del costume italiano (anno 1953) con cui nacque la Dolce Vita, ma Le Lune Noir (special guest dello spettacolo cui abbiamo assistito – ospite diverso ogni sera – e personaggio della Milano underground) recita a perfezione la parte dell’icona, «con violenza, quasi con brutalità, si toglie il vestito, la sottoveste, il reggipetto, le mutandine. È nuda in un attimo». Uno «spogliarello eroico, all’antica». A differnza che nella sceneggiatura qui ci sono più pudichi palloncini che la ricoprono, scoppiati con la sigaretta.
A quel punto parte la batteria di rullante e charleston. «Oh, teddy girl, pupa in technicolor / Oh teddy girl, c’è un jukebox nel tuo cuor…» Rock and roll, Celentano. Qui solo voce e batteria. Potente.

Fine anni Cinquanta e inizio Anni Sessanta.
Sta per iniziare il boom economico, l’America e le sue mode inondano l’Europa. E’ l’alba di uno dei decenni più incredibili del secolo scorso. L’Italia vuole mettersi alle spalle la guerra e il fiume di danaro e non solo che arriva dall’America ricostruisce il vecchio continente.
Le influenze d’oltreoceano sono nello stile di vita. Celentano e gli urlatori invadono la scena, i miei genitori in piena adolescenza usavano la birra per tener su i capelli e l’economia era assai poco internazionalizzata. Digitale era una parola sconosciuta e dopo l’uscita di Una vita violenta, Pier Paolo Pasolini, poco meno che quarantenne, incontrava finalmente Milano in un’esplorazione che seguiva quella della capitale, ma che ne sviluppava un identico desiderio di conoscenza. Milano era già una città composita che univa industria e commercio, che accoglieva italiani da ogni dove.
I pugliesi già prima della seconda guerra mondiale erano il 5% della popolazione totale, e le osterie alla mescita a Milano si chiamavano “trani” dalla fine dell’800 quando a causa di un litigio doganale con la Francia ai pugliesi venne negato il commercio del loro vino oltralpe e così iniziano ad aprire vinerie, vendendo il vino di Trani al bicchiere in città. E’ fra bettole come queste, e insieme a giovani teppistelli di periferia che Pasolini gira per la città.

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Il Gimkana, ma anche il Teppa, il Rospo, il Contessa, Mosè e Toni: ecco i protagonisti di un’immaginaria notte di Capodanno, in cui Pasolini ambienta il racconto del capoluogo lombardo fra musica di juke box, brillantina nei capelli, furti d’auto, rapine in chiesa, violenze e sesso, in una corsa folle fra i bar luccicanti di corso Buenos Aires, night club e teddy boys, balere di periferia.

E’ una scrittura molto sonora, un suono che rompe la coltre nebbiosa della città e la colora della sua umanità vera per una drammaturgia che assomiglia molto a quella di un’Arancia Meccanica al gusto di nebbia di Bollate. I teppistelli, dopo i furti, infatti, si precipitano a sconvolgere la borghesia metropolitana che festeggia il nuovo anno in una villa di periferia, trasformando la festa in un’orgia.

La Nebbiosa, sceneggiatura scritta a penna in venti giorni in un albergo a Milano e non utilizzata dai committenti (l’industriale milanese Renzo Tresoldi e dei fantomatici operatori cinematografici che poi non diedero seguito alla produzione filmica), è un’opera del ’59, e per lungo tempo era stata data per perduta, rispuntata poi nel 1995 dall’archivio della rivista Filmcritica, e pubblicata più di recente da Il Saggiatore in versione integrale. Corrisponde, nella trama, ad un format narrativo già usato da PPP per La notte brava, altra sceneggiatura che aveva scritto per Mauro Bolognini e che mescolava una tecnica messa a punto in modo infallibile: visitare i posti, le celebri interviste al popolo, con ampi assaggi di modi di dire e di fare che poi riverberavano nella narrazione attraverso un caravaggesco coinvolgimento, nella stesura, delle persone reali alle quali si ispiravano i personaggi.

Per la cronaca, un film poi si fece, e dopo un ballottaggio sul titolo che arrivò ad una surreale short list che comprendeva La Nebbiosa ma anche Polenta e sangue, si chiuse con “Milano Nera“, regia di Pino Serpi e Gian Rocco. Vietato ai minori di 18 anni, rimase al cinema nemmeno una settimana (nel settembre 1963). Ma della sceneggiatura restava così poco che Pasolini andò su tutte le furie, anche perché disse di non esser stato pagato, mentre sulle locandine il suo nome appariva bello grande.

La cosa bella dello spettacolo La Nebbiosa, in scena al Franco Parenti di Milano, è che questa atmosfera, in qualche forma artigianale e sporca, si respira. Con piccoli ma interessanti espedienti scenici low cost (pensati da Giada Gentile), la nebbiosa  città, la chiesa, i viali di periferia, le balere, ci appaiono e rivivono con i loro protagonisti, e la presenza attorale  “pasoliniana”, sporca, del musicista che appare corpo recitante in qualche scena, non modifica l’equilibrio, anzi in un certo modo ci restituisce l’intenzione originaria presente nel modulo creativo dello scrittore. Annoni è attore talentuoso che ha un suo stile nello stare in scena molto netto, preciso, che si conferma anche in questo allestimento, conferendo qui quella bellezza algida alla Dean ai suoi personaggi, ma anche quella tracotanza un po’ smargiassa e nordica, di periferia. Gli basta indossare un cappotto o toglierlo. Paolo Trotti è preciso nella regia, secondo noi realizza un’operazione sporca quanto basta per essere pulita nell’intenzione e arrivare a segno.

 

Spettacolo teatrale liberamente ispirato alla sceneggiatura “La nebbiosa” di Pasolini

di Paolo Trotti e Stefano Annoni

con Stefano Annoni e Diego Paul Galtieri

regia di Paolo Trotti

scene/costumi Giada Gentile
organizzazione Sara Novarese
foto Laila Pozzo