LUIGI SCHIPANI | “E vissero per sempre felici e contenti” … Quante volte, da bambini, abbiamo sentito questa formula come clausola di un lungo racconto della buonanotte. Purtroppo, capita spesso che questo non accada: le storie d’amore possono finire o la vita di uno dei due può spezzarsi prima del tempo. In entrambi i casi, il dolore dell’assenza ha il magico potere di colmare il vuoto della perdita e il ricordo diviene così nitido da far rivivere, in chi resta, la persona che non c’è più.
Nell’Aiace di G. Piazza il valoroso eroe di Salamina ormai ha smesso di respirare. Di lui rimane una veste, abbandonata su una sedia, posta al centro della scena; di lui rimane anche il ricordo in Tecmessa, sua moglie, che, vestita di cenci e affranta dal dolore, fa il suo ingresso dalle spalle del pubblico, gettando a terra alcune biglie (forse simbolo dei carichi emotivi che hanno attanagliato la vita del marito). Si rivolge ex abrupto a una mosca, che con il suo ronzio le impedisce di stare tranquilla: è l’assillante ricordo dell’amato o sono piuttosto la voce confusa dei sensi di colpa dell’eroe e l’eco irritante delle risa dei suoi nemici?
Attraverso un meccanismo di proiezione e di trasposizione, infatti, i due personaggi si confondono, la distinzione tra l’uomo e la donna scompare e a parlare è Aiace stesso nel corpo della moglie: espediente ingegnoso, che in un primo momento disorienta e incuriosisce lo spettatore. G. Piazza, dunque, recupera l’immagine tradizionale dell’eroe, ma la rielabora, capovolgendo le parti per interrogare il suo lato femminile e sensibile.
In un monologo di tono struggente, interpretato con intensità da V. Graziosi, vengono ripercorse le tappe più significative della vicenda dell’eroe, dai fasti delle vittorie fino al tragico epilogo: episodi gloriosi che ormai appartengono al passato, ma che nella memoria tornano a vivere e a tormentare l’eroe, ferito nel suo orgoglio di combattente. Solo la parte femminile trova la forza di reagire al vuoto della perdita e il personaggio, tornato Tecmessa, esce dalla scena silenziosamente, rasserenato nel volto, mentre dà una forma ordinata alla biglie che precedentemente aveva gettato qua e là.
Il lavoro trae spunto da un monologo di G. Ritsos, scritto negli anni Sessanta del Novecento, durante la fase di regime autoritario in Grecia. Attraverso l’espediente mitico, il poeta greco voleva denunciare il disagio provocato dall’ assenza di libertà e il senso di grandezza e di impotenza che i soldati dell’epoca provavano.
Di fronte allo smarrimento che ne deriva, veniva così espresso il diritto di fallire: il suicidio si configura come un atto liberatorio, in cui la perdita di tutto riesce a ristabilire un ordine e rendere libero l’uomo. G. Piazza recupera questa dimensione, ma la supera, vestendo la combattente Tecmessa di panni laceri e tratteggiandola come una coraggiosa “eroina dell’oggi”. Nella sua rilettura, infatti, il mito non esiste più, l’eroe nemmeno, ma a persistere è la tenacia con cui l’uomo affronta le sfide e gli ostacoli della quotidianità.
In uno scenario desolante e vuoto, a tratti ostentato in maniera insistita, si manifesta, dunque, il bisogno di reagire; da questa contrapposizione prende forma una critica alla società contemporanea, affascinata stupidamente dalla fama e dalla gloria, che si propone, però, in una forma un po’ usata, sentita, e che ha smesso per certi versi di essere ascoltata.
Aiace
Di Ghiannis Ritsos
Traduzione di Nicola Crocetti
Con Viola Graziosi
Voce Graziano Piazza
Regia Graziano Piazza
Scenografia musicale Arturo Annechino
Costumi Valentina Territo
Registrazioni e mix David benella
Assistente alla regia Ester Tatangelo
Produzione Il Carro dell’Orsa di Roma
Spettacolo visto al PACTA SALONE di Milano in data 30/03/2017
C0mplimenti, sei stato bravissimo. Marisa Rui