ELENA SCOLARI | Settimo, l’ultima produzione del Piccolo Teatro per la regia e drammaturgia di Serena Sinigaglia, è dedicato alla fabbrica Pirelli di Settimo Torinese, è stato in scena al Teatro Studio Expo di Milano.
Poche parole, proiettate su un grande schermo nero, ci informano ad inizio spettacolo che le parole che sentiremo sono state tutte pronunciate da operai, tecnici e ingegneri della fabbrica Pirelli di Settimo Torinese nelle interviste raccolte fino al Gennaio 2011.
Questa dichiarazione crea delle aspettative: ci immaginiamo di assistere ad un affresco molto vivo, pieno dell’esperienza annosa di uomini che hanno vissuto in una realtà di lavoro che ormai poco conosciamo. Invece no. Lo spettacolo gode, soprattutto, di una scenografia molto bella (di Maria Spazzi) che soffoca la sostanza di quello che, a nostro parere, doveva essere il fulcro incontrastato del lavoro: la vita in fabbrica, i problemi degli operai, l’evoluzione di un mondo che in quarant’anni è molto cambiato.
La struttura è quella di una discesa agli inferi dantesca (forse non troppo originale, no?), una coppia modello Dante-Virgilio è la costante di questo viaggio: un’impiegata (una brava Beatrice Schiros) accompagna un giovane (Ivan Aloisio), candidato lavoratore, nei vari settori della Pirelli, qui incontrano gli operai che spiegano, in maniera molto accennata, i vari processi di lavorazione degli pneumatici, come in tante stazioni di una via crucis in fabbrica.
La regia di Sinigaglia è attenta ai movimenti corali, crea quasi una coreografia per queste tute bianche-narratori, ma proprio questa attenzione risulta eccessiva, c’è troppa costruzione, la mano che dirige si sente tanto da non rendere più credibili i personaggi, toglie loro l’autenticità che ci aspettavamo ricomparisse nelle loro parole, purtroppo invece finiscono per dire cose banali.
Noi non conosciamo il materiale originale da cui il testo di Settimo è stato tratto, può darsi che tutto quanto è detto sia stato effettivamente pronunciato, ma manca il passaggio successivo che un drammaturgo dovrebbe fare in un caso come questo: montare, adattare e plasmare le interviste perché esca ciò che di più interessante c’è e che deve essere evidenziato con sapienza, non basta essere fedeli se si vuole rendere un servizio utile. Non c’è una riflessione, ciò che invece doveva essere lo scopo di uno spettacolo sul lavoro, sulla gente che ha dedicato la propria vita al lavoro, con sofferenza e abnegazione, come oggi non capita quasi più.
Noi spettatori abbiamo, alla fine, l’impressione di un contesto dove sono privilegiati gli aspetti positivi della fabbrica: la solidarietà tra i lavoratori, l’affetto fortissimo che nasce tra persone che passano la maggior parte del loro tempo insieme, la dedizione a svolgere meglio che si può la propria mansione. Sospettiamo, ma è un sospetto terribilmente maligno, che la sponsorizzazione dello spettacolo da parte della Pirelli stessa, abbia condizionato il tono complessivo.
(Sul programma di sala c’è anche un testo di Tronchetti Provera).
Gli attori sono tutti equilibrati su un buon livello recitativo, spinto forse un po’ troppo sopra le righe. Spiccano senz’altro Aram Kian e Beatrice Schiros ma tutti si muovono con disinvoltura in questo mondo nero di gomme e fumi e fuochi.
In una sola ora e venti il tema è trattato un po’ a volo d’uccello, usciamo dal teatro senza sapere molto più di quando siamo entrati, peccato.