LAURA NOVELLI | In un momento di enorme con-fusione culturale come quello che stiamo vivendo, il fatto che nascano nuove iniziative tese a valorizzare i giovani talenti, la formazione, la trasmissione (trasversale e diacronica) di saperi e sapienze da parte di maestri che scendono in campo e si espongono in prima persona rifulge come un segnale non solo positivo, ma oserei dire addirittura coraggioso e importante. Va letta proprio in quest’ottica la messinscena de “La grande passeggiata”, in programmazione al Teatro Royal di Bari in questi giorni: il testo, in versi, è opera del venticinquenne pugliese Fabrizio Sinisi (già fattosi notare come promettente poeta con la silloge “La fame”, edita da Archinto) e racconta una vicenda che per molti versi riecheggia le ombre controverse del caso Strauss- Kahn, in una miscela di temi politici, economico-finanziari e umani dove si perde la bussola dell’ovvietà a vantaggio di quegli “scarti” imprevedibili e inconsueti che, al contempo interiori ed esteriori, nutrono da sempre la buona drammaturgia. Siamo in una stazione di polizia di un paese non precisato: un importante uomo politico francese accusato di violenza sessuale ai danni di una cameriera riceve la visita di sua moglie e del suo avvocato, segretario del Partito Socialista. Durante il colloquio, però, il presunto colpevole diventa preda di un vaneggiamento ai limiti della follia che costringe i convenuti a una radicale revisione di se stessi e delle loro stesse relazioni: una tormentata “catastrofè” in cui è in gioco l’intero mondo occidentale, visto che l’accusa di stupro assurge qui a metafora della violenza sottesa alla crisi politica, economica, valoriale e sociale dei nostri tempi.
Al di là della trama, incuriosiscono di questo spettacolo soprattutto la partitura in versi (nell’alveo di quella tradizione che accomuna Alfieri e Manzoni ai più moderni Fabbri, Luzi, Pasolini), la presenza di un interprete di grande pregio come Sandro Lombardi e lo sguardo d’insieme di un regista sempre curioso, innovativo e raffinato come Federico Tiezzi. L’operazione nasce infatti all’interno del Teatro Laboratorio della Toscana, un corso biennale per attori diretto dallo stesso Tiezzi dove si sono formati gli altri interpreti in scena, che sono Marco Brinzi, Andrea Luini, Rosa Sarti, Nicolò Todeschini, e dove si è formato lo stesso Sinisi.
Allora il vero punto della faccenda è questo: una della compagnie storiche della nostra ricerca, da sempre attenta a un’estetica del teatro fortemente influenzata dall’arte visiva e a una lingua scenica carnalmente poetica (basti ricordare i fortunati incontri con Testori, Dante, Luzi), instaura sinergie con altre realtà produttive, quali il Teatro Pubblico Pugliese e Armunia/Festival Inequilibrio, per allenare un gruppo di giovani attori al più spregiudicato degli atti creativi: essere altri da sé restando sé.
Già nel 2007 Tiezzi aveva creato a Prato una scuola di specializzazione sostenuta dalla Regione Toscana. Questa nuova esperienza, arricchita da sessioni didattiche a Pontedera e a Castiglioncello e dunque nomade nella misura in cui “si accampa di volta in volta – afferma il regista – nei territori toscani più vivi d’esperienza”, vuole essere la prosecuzione della precedente, ma soprattutto intende ricucire un legame ideale con il Fabbricone di Prato diretto da Luca Ronconi tra il 1976 e 1979. “Un insegnamento efficace della composizione creativa – racconta – non può, secondo me, essere impartito da storici del teatro ma solo da artisti. Il Laboratorio della Toscana è nato con questo intento. Suoi numi tutelari sono Bruce Chatwin e Walter Gropius”. Più che a trasmettere un metodo rigido, questa realtà formativa mira a indirizzare la creatività dell’attore, a insegnargli “un metodo che ne sviluppi l’immaginazione, che dia al suo pensiero una forma meno da attore ma più da artista di teatro. E poi, un sostegno al metodo fatto di incontri con artisti di differenti discipline, secondo l’immortale esergo di Forster only connect”. Con queste premesse, il regista toscano ha proposto ai suoi allievi mesi e mesi di lavoro su due opere immense e complesse come “Woyzeck” di Büchner e “Wozzeck” di Alban Berg, musicista dodecafonico degli anni Venti. “Il primo l’ho scelto – continua – perché è l’unico testo che Artaud ammette nel secondo Manifesto sul Teatro della Crudeltà e perché ha la magia dell’incompiutezza; quella di Berg è un opera musicale straordinaria, dove il canto fa uso di un declamato fortemente espressivo”.
La contaminazione tra queste due partiture, diverse ma per certi versi complementari, ha dato vita a ununicum spettacolare, intitolato “Scene di Woyzeck, Büchner/Berg”, che debutterà il 1° febbraio a Castiglioncello.
E pensare che anni fa, in occasione di un’intervista rilasciatemi a pochi giorni dal debutto romano di “Antigone di Sofocle” di Bertolt Brecht e “Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini” di Mario Luzi, Tiezzi aveva esordito: “Il teatro è morto”. Non credo dicesse sul serio. Certamente registrava un momento di crisi, un’urgenza di cambiamento. E dunque: che sia proprio l’entusiasmo di insegnare il teatro ai giovani una delle chiavi della sua rinascita?