LAURA NOVELLI | Era il 2010 quando Antonio Ianniello e Francesco Saponaro mettevano mano alla stesura del monologo Šostakovič il folle santo, ispirato alla figura del grande musicista russo scomparso nel 1975 e scritto dopo aver studiato, selezionato, rielaborato in modo assai scrupoloso alcune fonti biografiche e il vasto epistolario dell’artista. “Ogni singola parola del testo proviene da questi materiali di partenza; non abbiamo inventato nulla”. A distanza di sette anni, lo stesso Saponaro, anche regista della pièce, così racconta la genesi di un lavoro che possiede una raffinata sostanza ideologico-poetica e che resiste strenuamente alle “intemperie” del teatro italiano. Tanto da essere stato più volte replicato nel corso delle ultime stagioni e da essere stato riproposto a Roma proprio qualche sera fa all’interno della rassegna Stanze, avamposto capitolino di una più ampia iniziativa milanese ideata da Alberica Archinto e Rossella Tansini che già due anni fa presentò questo stesso allestimento a Milano (alla Casa Museo Boschi Di Stefano) e riguardo alla quale, proprio nel 2015, Michela Mastroianni e Renzo Francabandera scrissero ampliamente su PAC (https://paneacquaculture.net/2015/07/15/stanze-fuori-dalle-case-note-darte-fra-musica-e-filosofia-multimediale/).
Siamo nel bel villino di inizio Novecento che ospita il Museo Boncompagni Ludovisi alle Arti Decorative. Un salone rettangolare, completamente affrescato e ricolmo di spettatori accaldati, è lo spazio inconsueto in cui questo breve spettacolo targato Teatri Uniti racconta la vicenda umana e professionale di un Dmitrij Šostakovič ormai anziano e stanco; personaggio immenso al quale Tony Laudadio regala una prova davvero egregia ed eclettica (e l’eclettismo credo sia una dote precipua dell’attore campano; ancora lo ricordo nello splendido Dolore sotto chiave diretto sempre da Saponaro per il quale rimando a un mio contributo di qualche anno fa: www.succedeoggi.it/2014/11/eduardo-in-nero/).
Sono sufficienti una poltrona, un bastone, un telefono, un leggio: non serve altro per attivare i canali della memoria, per rievocare il periodo della persecuzione stalinista, della censura, della fuga a Leningrado. La musica è alta. Spesso copre persino le parole. Risuonano note delle maggiori opere del musicista. Ma questa musica non è un semplice accompagnamento. Essa, bensì, è il vero co-protagonista dell’assolo: la voce “altra”, l’antagonista amata e amabile, imprescindibile. Motivo per cui il primo pregio di questo monologo consiste proprio nella forma rapsodica della sua drammaturgia. Per tutto il tempo della rappresentazione la musica (in particolare la Settima sinfonia, quella composta all’indomani dello scoppio della seconda guerra mondiale e riguardo la quale il compositore stesso scrive: « Un’ora fa, ho completato la composizione del secondo movimento di una grande sinfonia. Se riuscirò a scrivere bene la sinfonia, se completerò il terzo ed il quarto movimento, sarà possibile chiamare questa composizione la Settima sinfonia. Perché vi annuncio questo? Perché tutti gli ascoltatori devono sapere che le cose nella nostra città procedono come sempre e ognuno rimane al suo posto, malgrado la minaccia che pende sulla vita di Leningrado. Sbrighiamo ora tutte le faccende militari. Musicisti sovietici, miei cari amici e numerosi compagni di lotta, amici miei! Ricordiamoci che la nostra arte è ora in grande pericolo. Lasciateci difendere la nostra musica, lasciateci lavorare onestamente ed indipendentemente») funge da secondo interprete, da seconda presenza, come se si trattasse di un poema musicale in cui parola e musica dialogano tra loro senza risultare mai l’una subalterna all’altra.
Tra questi due universi paralleli e complementari di ricordi, emozioni, suoni si insinua poi la plasticità mimica e vocale di Laudadio. Entra lentamente. Indossa un elegante frak e occhiali spessissimi. Si siede sulla poltrona con cauta resistenza alla forza di gravità, quasi vi cadesse dentro: un vecchio, geniale, artista del Novecento alla resa dei conti. Con quell’ansia di libertà che ha sempre pervaso la sua esistenza. Con quella capacità innovativa che ha sempre caratterizzato le sue composizioni. Ora è lì, da solo; non gli resta che la sua musica. Ogni tanto telefona a qualcuno. Ogni tanto appunta note con una matita. Ogni tanto Šostakovič/Laudadio non è più Šostakovič bensì Stalin, o un burocrate, o qualcun altro. E più si procede dentro la narrazione più egli diventa un simbolo. Un emblema. Un’icona. Vittima di una dittatura feroce e poi riabilitato e assurto a grandi successo e onori, il prolifico musicista (scrisse, tra le altre opere, quindici sinfonie e più di trenta colonne sonore di film) somiglia al Galileo di Brecht. E di quel Galileo custodisce la forza politica, ideologica, poiché incarna l’importanza dell’autonomia di pensiero, la sensibilità artistica che sfida e va oltre la Storia stessa. Ma è in Minetti, ritratto di un artista da vecchio di Thomas Bernhard che trovo le assonanze maggiori. Tanto più che Laudadio cavalca con estrema fluidità di sentimenti ed emozioni l’aspetto umano di questo vecchio così ricco di coraggio e di genio. Le poche volte che si alza in piedi è come se si alzasse un intero esercito. Ogni volta che muove leggermente una mano o che cambia sguardo o inclinazione vocale il pubblico non può che aspettarsi un mutamento, una novità, una rivelazione. E forse la rivelazione più autentica sta già nel titolo. Perché follia e santità sono qui le due facce di una stessa medaglia. I perni centrali di una complessa esistenza.
La rassegna Stanze, che a Roma ha presentato anche Destinatario sconosciuto su drammaturgia e regia di Rosario Tedesco, chiuderà martedì 25 luglio con Amore ai tempi del colera con Laura Marinoni diretta da Cristina Pezzoli. Il cartellone milanese della prossima stagione è già a buon punto, ma ovviamente ancora top secret.
Una considerazione finale: penso che il cuore pulsante di questa vetrina, e cioè l’adattabilità degli spettacoli teatrali a spazi diversi e inediti, sia una fonte di grande stimolo per gli artisti stessi perché offre loro l’occasione di “ri-flettere” e “ri-tornare” sul proprio lavoro, e dunque di cercare nuove strade espressive e nuove libertà creative. Insomma, la lezione stessa del folle e santo Šostakovič.
Šostakovič il folle santo
con Tony Laudadio
drammaturgia Antonio Ianniello, Francesco Saponaro
regia e spazio scenico Francesco Saponaro
colonna sonora Dmitrij Šostakovič
produzione Teatri Uniti
STANZE a Roma al MUSEO Boncompagni Ludovisi – via Boncompagni, 18 – Roma
info@lestanze.eu; www.art-city.it; www.lestanze.eu