LAURA NOVELLI | Entra in scena con un tailleur rosa cipria e un’aria da signora bene un po’ retrò. Lo spazio – una casa in fase di smantellamento e imballaggio – sembra angusto rispetto alla sua figura. Se non fosse per quella finestra sul fondo che lascia alludere al mondo-di-fuori (inaccessibile, negato, oppure forse troppo spesso sognato), e se non fosse per alcune immagini video che proprio di quel mondo rimandano vibrazioni e movimenti. Ma lo spazio sembra angusto anche per l’altro personaggio in scena: un uomo giovane, vestito semplicemente di nero che se ne sta seduto in un angolo. Sono madre e figlio. La madre e il figlio che Nicola Russo – sensibile autore, regista e interprete insieme con Sandra Toffolatti – immagina nel suo originale Io lavoro per la morte, in cartellone al teatro Tordinona di Roma nei giorni scorsi nell’ambito della rassegna Le vie dei Festival.
Ci sono solo loro due in questo universo popolato da memorie e da incubi: Nicola e Marcella, N. e M. Tuttavia non si chiamano per nome. Non dialogano. Piuttosto, raccontano una doppia storia di separazione, lutto, infanzia, malattia, esperienze familiari, che pare imbastita su due traiettorie drammaturgiche diverse (poi ci si accorgerà che non è esattamente così). All’inizio la situazione è surreale, intrigante, tuttavia ancora poco chiara. Voce morbida ma profonda, la madre racconta un sogno violento, cruento e torbido alla fine del quale le resta il rammarico che nessuno dei terroristi “si sia accorto di lei”.
Poi l’uomo inizia a “dire”, a descrive la donna come se la vedesse con gli occhi della mente ( “Sei seduta in tinello. Hai in mano una sigaretta […]”) e si fa strada la sensazione che la pièce ci voglia far riflettere sulla possibilità di tenere in vita chi non c’è più. O meglio, sulla possibilità di tradurre artisticamente il bisogno di riappropriarsi dell’altro – di comprenderlo realmente – dopo che l’altro ci ha lasciati per sempre. Il dato biografico, personale, non può che assumere però un respiro universale. Senza retorica. Lontano dai patetismi, dal melò, dai cliché più ovvii. La scrittura di Russo – di cui mi piace ricordare l’originalissimo sguardo sull’età matura regalatoci in Vecchi per niente del 2015 – possiede anzi una linearità solo all’apparenza semplice; capace, bensì, di intrecciare abilmente piglio ironico, gusto anti-realistico, declinazioni grottesche, registri quotidiani. Attraverso un avvicendarsi di ricordi affastellati come dentro un flusso di coscienza, la madre e il figlio – ognuno seguendo il proprio percorso fabulatorio – si ritrovano. La M. della Toffolatti – davvero superba, plastica e al contempo epica, forte e poi fragile, arguta e poco dopo ingenua – è qui una proiezione immaginaria del figlio. Un fantasma concreto, materico, che gioca a riavvolgere il nastro della propria vita, sovrapponendo allo sguardo di N. la propria versione dei fatti, la propria verità post mortem. C’è Pirandello a fare da capolino dietro questi quadri di memoria a due velocità. Dietro questo continuo parlare l’uno dell’altra senza essere uditi. E teatralmente il marchingegno funziona proprio perché, in una regia sobria ma non banale, accosta due universi umani ed interpretativi quanto mai diversi: volutamente dimesso, sottoesposto, pacato il figlio; altrettanto volutamente barocca, energica, fluttuante, arguta la madre.
Con la sigaretta spesso accesa, ella racconta la sua infermità, la sua chiusura in casa, la sua immobilità di casalinga, e la sua stessa morte. E alla sue parole fanno da contraltare quelle del figlio. Il loro reciproco amore passa – adesso – attraverso gli oggetti, le tre calamite a forma di pulcino con cui facevano un gioco durato quarant’anni, le fotografie, il ballo sulla spiaggia con i butteri della Maremma, la corsa in macchina in cerca della tomba del padre, i film pieni di azione e pugni in faccia, le parole crociate. L’orrore per il velo di tulle con cui le avevano coperto il volto nella bara. E soprattutto, quell’ostinato desiderio di fumare. Quella è stata la sua trasgressione. La sua più libera libertà.
Insomma, un progressivo disvelamento di sé che è desiderio di conoscere e di conoscersi. E nell’epilogo il nastro della storia di riavvolge come d’incanto e vira verso una prospettiva surreale: poggiata la testa sul tavolo, M. racconta un atro sogno. E’ la cassiera di un cinema, ad un certo punto si allontana dal suo posto per andare a vedere il film. Qualcuno le fa notare che non è corretto lasciare il proprio lavoro. E lei dichiara commossa: “Ma io lavoro per la morte”.
Io lavoro per la morte
testo e regia Nicola Russo
elaborazione drammaturgica Nicola Russo e Sandra Toffolatti
con Sandra Toffolatti e Nicola Russo
scene e costumi Giovanni De Francesco
luci Cristian Zucaro
video Lorenzo Lupano
parrucca Aldo Signoretti
grafica Liligutt Studio
immagine locandina Giovanni De Francesco
produzione Monstera in collaborazione con Le vie dei Festival
si ringrazia Artisti 7607 e Ilva Garuti
Teatro Tordinona 18-20 ottobre)
Le Vie dei Festival 2017 – prima nazionale