LAURA NOVELLI | Nel 1961, anno della fondazione della celebre Compagnia dei Quattro, interpretò per la prima volta in Italia L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett e, nel corso della sua lunga e felice carriera, Glauco Mauri è tornato spesso al grande autore irlandese. Soprattutto ai suoi testi più brevi, a quegli Atti unici che condensano in poche pagine – ora in un flusso di coscienza fabulatorio e visionario; ora invece in una gestualità silenziosa, compassata ed emblematica – l’intero universo di smarrimento contemporaneo raccontato nei capolavori più complessi. Un amore durato un’intera vita quello tra Beckett e Mauri. Innovativo e spregiudicatamente anti-realistico, il primo; fedele alla tradizione ma sempre alla ricerca di uno stile e di una freschezza interpretativa personali, il secondo. Basti ricordare Dal silenzio al silenzio del ’90, lavoro in cui, già in coppia con Roberto Sturno, Mauri metteva insieme L’ultimo nastro di Krapp, Improvviso dell’Ohio, Respiro, Frammento di Teatro e Atto senza parole. Oppure il più recente Da Krapp a Senza Parole, altra silloge di testi brevi beckettiani arricchita dalle musiche di Germano Mazzocchetti. Poi è arrivato il desiderio di affrontare Finale di partita (celebre pièce del ’56 arrivata in Italia due anni dopo per volontà di Andrea Camilleri). “Abbiamo cominciato a provare con grande entusiasmo – racconta il Maestro stesso – ma poi ci siamo arresi. Ci siamo sentiti immaturi e forse non pronti per affrontare un così poetico, tragico e farsesco aspetto della vita. La tragedia del vivere che diventa farsa – la farsa del vivere che diventa tragedia”. Quest’anno, quel desiderio si è tramutato in un’urgenza irrinunciabile e l’ottantottenne attore ha ripreso in mano il vecchio progetto approdando finalmente in palcoscenico (il debutto all’Eliseo di Roma il mese scorso, in tournée da gennaio 2018) nei panni di Hamm e affidandosi alla regia di un regista fantasioso come Andrea Baracco.
Cercare di interpretare per via logica e razionale questa farsa tragica significherebbe semplicemente ribadirne l’insensatezza. Eppure, dentro questa apparente insensatezza (così vicina ai temi dell’esistenzialismo francese), si annida la minaccia di quel vuoto che ci prende allo stomaco e ci pone tutti di continuo in bilico tra aspirazione alla felicità e sua immediata negazione. Come è noto, qui non esiste una trama vera e propria. Esiste piuttosto una situazione: un vecchio cieco (Hamm appunto) immobilizzato su una sedie a rotelle che appare in scena coperto da un lenzuolo e che viene assistito da un servitore paonazzo in volto (Clov/Sturno), tanto desideroso di uscire da quel bunker dell’anima quanto incapace di farlo. “In primo piano a sinistra – annota l’autore nella didascalia d’apertura – due bidoni per la spazzatura, uno accanto all’altro”, luoghi deputati ad ospitare Nagg e Nell, progenitori di Hamm stesso. Siamo dunque in un rifugio post-atomico, fuori dal quale “è la morte”. Ma dentro al quale non vi è vera vita. Semmai, lo scheletro di un’attesa, la lentezza di un tempo sospeso, la ripetitività di gesti e parole. Il desiderio – per sua natura negato e compromesso – di uscire, cambiare, evadere. E, di contro, la consapevolezza di potersi salvare solo lì, in quell’insensata staticità cieca e oscura.
Nella scenografia plumbea e lunare di Marta Crisolini Malatesta, vi è una geometria polverosa e un’atmosfera quasi post-bellica. Un gioco di luci ben studiato allarga lo spazio rendendolo non del tutto angusto. Due finestrelle e una porta sono gli unici spiragli di apertura verso un ipotetico “fuori”. Il vecchio protagonista siede su un trono e la sua condizione di paralitico gli conferisce una solennità da tragedia classica. Lontano dal distacco epico e straniato di precedenti interpretazioni italiane (ricordo, ad esempio, quella straordinaria di Carlo Cecchi), Mauri regala a questo personaggio una prova eccellente: fa vibrare con sfumature minute e musicali i diversi passaggi emotivi e mostra certamente un ascendente per le note più tragiche, tanto che la sua cecità somiglia a quella di un eroe shakespeariano (penso soprattutto al Conte di Gloucester del Re Lear), o a quella di Edipo stesso. Ma anche questo è Beckett: talmente innovativo da diventare classico. Sturno, da parte sua, disegna un Clov clownistico e grottesco che a tratti sfiora il macchiettistico e che sta sempre in bilico tra pianto e riso. Una maschera alla Charlot: elegante e buffa al contempo, capace di muoversi lentamente nella scatola di dolore dove abita e però capace anche di velocizzare la staticità di Hamm con le sue continue entrate, uscite, salite e discese dalla scaletta attraverso cui si affaccia per perlustrare il mondo.
Senza dubbio sta proprio nel contrasto/incontro tra i due diversi registri espressivi dei protagonisti l’ossatura più particolare di questo spettacolo: un elastico di emozioni e pensieri e pause e gesti tirato ora di qua ora di là con agile disinvoltura. Ad arricchire la scacchiera delle relazioni e della comunicazione interpersonale ci pensano poi i due poveri progenitori (i bravi Mauro Mandolini ed Elisa Di Eusanio), continuamente affamati e disperati. Personaggi che qui – con una scelta registica coraggiosa ma secondo me non del tutto felice – vengono chiusi, completamente nudi, dentro bare di legno simili a gabbie. Segno probabilmente di una primitività bestiale e ancestrale non scevra dalla fatica di esistere. L’insensatezza del vivere, insomma, è un dato di fatto antropologico. Inutile illudersi. Inutile cercare un senso a questo dolore e a questo vuoto che, ieri come oggi, ci tolgono la gioia della nostra “partita”.
Finale di partita
di Samuel Beckett
con Glauco Mauri e Roberto Sturno
e con Elisa Di Eusanio | Mauro Mandolini
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
musiche Giacomo Vezzani
Regia Andrea Baracco
Produzione Compagnia Glauco Mauri Roberto Sturno
Teatro Eliseo, 26 settembre -15 ottobre 2017 (debutto nazionale)
da gennaio in tournée nella maggiori piazze italiane