ROBERTA ORLANDO e RENZO FRANCABANDERA | RO: “Cerco qualcosa in cui poter mettere tutta la libertà che ho.” Questa è la spiegazione che Haner, giovane protagonista dell’ultima drammaturgia di Francesca Garolla, riesce a dare alla sua esigenza di lasciare la Francia, la sua famiglia, gli affetti e una vita agiata per andare in Siria e unirsi a Daesh. Perché, come afferma, quella guerra percepita come straniera in realtà riguarda tutti. Perché non può bastare “essere nati dalla parte giusta del mondo” per farci sentire al sicuro. Qui si sopravvive, lì si muore. Ma forse la morte è un diritto di chi vive. Così per non stare ferma ad attenderla e per non sentirne ogni giorno la paura, Haner decide di andarle incontro, di sfidarla, come gli eroi dell’Iliade, il suo libro-guida. Ma come si fa ad accettare o comprendere una libertà così estrema senza confonderla con la follia? E inoltre, può la libertà personale implicare la morte o l’assassinio?
RF: Beh diciamo che la Garolla ha avuto senz’altro una buona idea. Un’idea non neutra, che parte dal presupposto che il libero arbitrio sia un tema che non può, come ovvio che sia, riguardare solo una parte del mondo. Qualsiasi sia la storia, l’esperienza, il vissuto socio-antropologico di una persona, la sua libertà di scelta, quando riguarda un punto di vista differente da quello che si è abituati a leggere e considerare, non può essere bollato tout-court come estremismo fanatico. E la scelta del libro “feticcio” chiamamolo così è bella perché in realtà è una di quelle epopee che riguarda il mondo fra Asia e Mediterraneo e dentro di sé porta già il conflitto fra queste due civiltà, in qualche forma. Troia era al di là del Bosforo, la Grecia in qualche forma era già Occidente. Andromaca, moglie del guerriero Ettore, “una di loro”. Ma di loro chi?
RO:Tu es libre, testo finalista al Premio Riccione 2017, che ha debuttato lo scorso ottobre al FIT Festival di Lugano e sarà in scena al Teatro i fino all’11 dicembre, ha origine da un argomento ostico di estrema attualità, che sta modificando il profilo socio-politico occidentale e che soprattutto negli ultimi tre anni, in seguito all’attentato di Parigi e alle notizie riguardanti foreign fighters italiani in Siria (molte donne, una delle quali partita proprio da Milano), ha risuonato più fragorosamente anche nel nostro Paese, smuovendo consapevolezza e paura.
RF: Ho pensato anche io a Fatima, la signora che ha deciso di partecipare alla lotta politico religiosa al confine fra Siria e Iraq. E devo dire che il testo induce a riflettere, ma non sulla giustezza o meno di una scelta, ma sul suo filosofico potersi dare.
RO: Lo spettacolo cavalca il tema per proporre (e proporsi) una riflessione che si discosta dal discorso politico per legarsi piuttosto ai concetti di umanità e, appunto, di libertà. Non sono dei fatti di cronaca a caratterizzare il testo della Garolla, bensì la storia di un essere umano che compie un’azione ai più incomprensibile. La si racconta cercando di sospendere i giudizi, osservandola, col supporto di immagini liriche, riflessioni antropologiche, citazioni letterarie, domande scomode a cui si è soliti rispondere solo scuotendo la testa in segno di rifiuto e che forse anche in questo caso lo spettatore stenta dapprima ad accogliere.
Riconosciamo nel testo alcuni tratti peculiari della drammaturga: già il precedente lavoro Non correre Amleto si proponeva come indagine sul senso della guerra e della morte, partendo da un avvenimento storico. E come in altre produzioni, il riferimento alla classicità fa da cornice e da sostegno alla struttura drammaturgica.
RF: Aggiungerei a questi spunti il tema cui facevo proprio cenno prima. Il tema proprio più filosofico del poter essere. Se sospendiamo per un attimo il giudizio visto “da questa parte” e fossimo osservatori neutri delle vicende umane, il poter essere di una scelta di quel genere, ovvero di scegliere l’altra parte, è più che degno di attenzione, sia concettuale che letteraria. In fondo anche Antigone nella tragedia classica, per altro verso, faceva la stessa scelta, ovvero cercava dentro di sé una legge superiore a cui ubbidire, e la trovava nel vincolo familiare. Haner la trova in modo ovviamente simbolico nel testo omerico ma in realtà la struttura dentro di sé con consapevolezze che fanno parte di una vita da persona matura. Ora, l’Occidente guarda con ovvio orrore all’atto terroristico contro persone inermi, la cui portata è amplificata dai media quando ha matrice religiosa mentre, come capita spesso negli USA, se è l’atto deliberato di un cittadino qualunque, è “solo” la manifestazione di un’identità folle. Eppure la società contro cui viene agita quella violenza è la stessa, è lì, è presente. Ma pesa le cose in modo diverso. Ovviamente non sto dicendo che accetterei di vedere la mia società diventare teocratica senza che questo non mi sconvolga. Oltre al fatto che già lo è. Ma, insomma, se stiamo qui a riflettere vuol dire che questo spettacolo proprio neutro non era.
RO: La regia di Renzo Martinelli vuole tutti i personaggi sul palco: Haner, il padre, la madre, il fidanzato, un’amica e l’autrice (Garolla, nei panni, appunto, di se stessa), che si muovono nello spazio spoglio e freddo di una stanza da interrogatorio, alternandosi in un primo piano illuminato a neon. Rilasciano deposizioni intrise dei loro ricordi di Haner e annebbiati dalla sofferenza, dallo scetticismo e dall’impotenza. Le voci amplificate da un microfono centrale, il vuoto della stanza che rimbomba, il rumore di sedie gettate sul pavimento che simula dei colpi di pistola, un gioco di luci bianche e penombre e un costante brusio metallico di sottofondo che disturba il silenzio: queste le scelte registiche che danno forma a scene disturbanti, che tengono a freno il coinvolgimento emotivo del pubblico.
RF: E’ un’amplificazione sottile, straniante, che disturba all’inizio. Come se volessimo udire bisbigli e invece sentiamo voci che comunque rivelano un’identità distorta. E’ un’espediente scenico interessante, che forse vuole dire proprio dell’approccio distorto con cui approcciamo alcune voci, alcune tematiche. Interessanti quindi le scelte sul suono di Giuseppe Ielasi, ma devo dire anche le luci di Mattia De Pace che portano quasi dentro un bunker, un ambiente chiuso, freddo, senza possibilità di guardare oltre. C’è un tema di sguardo in questa regia.
RO: La recitazione a volte straniata degli interpreti concede poco ad una vera e propria interazione fra di loro; anche nei dialoghi, il loro sguardo è quasi sempre rivolto alla platea o al vuoto. L’intensità interpretativa tuttavia lascia qualche spazio all’immedesimazione, soprattutto nella drammaticità dei due genitori, impersonati da Viola Graziosi e Alberto Onofrietti. Violenta e struggente la prima, più razionale e rassegnato il secondo, cercano le origini della loro tragedia famigliare tra la loro responsabilità e la (in)giustizia universale, chiedendosi incessantemente “perché”, pur consapevoli che la verità non attenuerebbe il dolore. Ci sono parsi invece meno influenti i ruoli del fidanzato (Alberto Malanchino) e dell’amica (Liliana Benini), la cui presenza aggiunge ben poco all’intreccio drammaturgico, se non altri due ridondanti punti di vista, espressi superficialmente e, nel caso dell’amica, con un lamentoso distacco che risulta irritante.
RF: Detto che, appunto, c’è una barriera che non permette di guardare oltre, che ad un certo punto viene abbattuta, sono nel complesso d’accordo sulla analisi che fai circa la dinamica chiusa di dialogo fra i personaggi, che in fondo paiono non parlarsi fra loro, come se fossero dentro un’aula di tribunale a rendere testimonianze che sventrano la naturalezza del loro sentire, che costringono le persone in qualche forma alla recita sociale. Questa è un’idea registica interessante, anche se, sono d’accordo, spinge i personaggi più di contorno verso un parossismo che ne assottiglia lo spessore fin quasi al fastidioso. Certe battute dell’amichetta, che ha come unico fine quello di non essere coinvolta nel processo socio-mediatico, avrebbero la stessa portata anche se recitate senza quell’affettazione da bambina viziatella in giro per shopping center.
RO: Il presente e il piano del ricordo si alternano e si sovrappongono. Il personaggio dell’autrice (a mio parere l’elemento più interessante dello spettacolo) interviene all’interno di parentesi astratte, fornendo didascalie e chiavi di lettura, creando intermezzi poetici, talvolta dispersivi, che tendono ad attutire la tensione. Dà voce alle ipotetiche domande di uno spettatore a cui, lo ammette, neanche lei ha saputo trovare soluzione. Si muove un po’ insicura in scena, con quei tratti di onniscenza di chi conosce la sua creazione, ma solo nei limiti delle sue intenzioni; il resto è in balìa di quel che accade sul palcoscenico e di quanto verrà recepito. Sarebbe stato interessante sfruttare questi intermezzi anche per aggiungere qualche elemento di analisi socio-politica in più, non solo per ampiezza di significati ma anche per approfondire le circostanze evolutive dei personaggi.
RF: Capisco questo punto di vista e la domanda ma forse il rischio sarebbe diventato a quel punto uno spostamento dell’asse drammaturgico verso il fattuale del nostro tempo, mentre come il richiamo all’Iliade lascia intendere, si cercava secondo me un più ampio riflettere sulla “scelta diversa”. Insomma se Pascal non è passato invano nella filosofia occidentale, l’opportunità di scegliere di credere in una morale assoluta, che la si chiami o meno divinità, è proprio nel portare ad un sistema che ammette la scelta. Pascal però aggiungeva il fatto che le scelte che poi si compiono dovrebbero essere propizie al bene della società. E qui da Ghandi in poi, si pone il tema della lotta nonviolenta, ammesso che Ghandi sia poi stato effettivamente fin dagli inizi un paladino della nonviolenza o questa sia stata una scelta maturata nel tempo anche come opportunità. Insomma quante contraddizioni, nell’essere umano! Questo spettacolo, fra pregi e difetti, punture e sbavature, qualche squarcio per la riflessione lo lascia, o no?
RO: Ho trovato efficace la rottura della messa in scena finale, in un frangente in cui Haner si rivolge all’autrice, trasferendo il linguaggio teatrale in una dimensione reale: uno scambio creazione-creatrice più sincero di quanto sia, nel complesso, quello tra madre e figlia, che invece trova scarso sviluppo; per questo motivo l’abbraccio finale delle due (un’immagine che richiama la Pietà di Michelangelo) si rivela una scelta estetica fuori contesto, oltre che un eventuale riferimento religioso inappropriato. Per me lo spettacolo genera elementi di discussione e interrogativi non banali e al di là di qualche debolezza si può dire riuscito.
RF: Sicuramente la Pietà finisce per essere un simbolo un po’ forzato, ma chi conosce le regie di Martinelli sa che, prima o poi, il riferimento al sistema dei simboli dell’arte arriva… Se pensiamo all’Erodias con la Fracassi di una stagione fa, quello era proprio immersivo rispetto a questo suo modo di sentire il dialogo semantico fra le arti. Però sì, questo filo che prova di colpo ad intrecciarsi su un codice che fino a quel momento ha avuto una tessitura diversa, è un po’ estraneo e forzato. Al netto di questo, comunque, l’operazione sia drammaturgica che registica ha una cifra capace di andare oltre lo spettacolo stesso, forse anche provocatoria e disturbante, come l’epifania della Pietà può rivelarsi, ma che mi ha lasciato interessato. Siamo in un dibattito con la nostra coscienza. Sarà per questo che gli attori si rivolgono a noi in platea. Anche se non sempre funziona, questo meccanismo, comunque ci porta ad essere lì, costretti a pensarci, a dialogare con la faccenda. Anche se fastidiosa. Dà sempre fastidio chi la pensa e sceglie differentemente. Quando Voltaire diceva: “Sono pronto a tutto perché tu possa pensare liberamente”, il postulato aveva una portata rivoluzionaria, che ha a che fare con la coscienza. La libertà di pensiero è il tema dell’oggi. Perché noi siamo liberi? In America sono bastati una manciata di post di qualche hacker russo su Facebook per spostare l’esito elettorale, a quanto si dice. Non siamo poi così tanto più svegli da questa parte della trincea… Siamo liberi noi?
TU ES LIBRE
di Francesca Garolla
regia Renzo Martinelli
con Liliana Benini, Maria Caggianelli, Francesca Garolla, Viola Graziosi, Alberto Malanchino, Alberto Onofrietti
assistente regia Mattia De Pace
luci Mattia De Pace
suono Giuseppe Ielasi
costumi Laura Claus
produzione Teatro i con il sostegno di Fabulamundi Playwriting Europe e NEXT
(ph. Laila Pozzo)