CINZIA CROBU | Poche e scomode sedute, nella penombra di una sala raccolta: sul pavimento plastica e cumuli di terra appiattita, su cui giacciono corpi. A ridosso delle pareti, scope di saggina, stracci, abiti di scena e, ancora, terra. Come nel teatro kantoriano gli oggetti evocano vite ed il limite di demarcazione tra pubblico e attori è impercettibile, affinché si possa partecipare insieme al “rito”, isolati in un contesto di inviolabilità. A ciò si aggiunge l’elemento meta-teatrale, che, nei momenti cruciali, restituisce respiro a testimoni consapevoli.
L’Avvoltoio, ultima regia di Cesar Brie, produzione Sardegna Teatro, porta in scena un testo della giornalista Anna Rita Signore -premio alla Drammaturgia, Calcante 2014 – che scaturisce da un’indagine documentaria e procede come un’inchiesta giornalistica. Al centro della vicenda vi è il più vasto poligono militare sperimentale d’Europa che, dalla metà degli anni ’50, è sito nella Sardegna sud orientale, nel villaggio di Quirra.
Il gruppo attoriale dà vita, coralmente, ad una storia vera, accaduta in tale zona, quasi disabitata e utilizzata per pascoli bradi. Gli eserciti di tutto il mondo e molti privati si sono recati a Quirra, per sperimentare nuove armi, addestrare reggimenti, simulare guerre. Si evince dai dialoghi, curati e fluidi, che non ci sia dato sapere cosa sia accaduto veramente. Come in altri poligoni italiani (pesante eredità del secondo dopoguerra, sudditanza perpetrata in cambio di DDT, collant e libertà), come nel Golfo Persico, nei Balcani, a Mogadiscio: civili, soldati, animali si ammalano e muoiono, con altissima incidenza. Il silenzio di Stato e la povertà degli abitanti del territorio, spesso disposti a tutto pur di vivere nutriti e ignari in casa propria, hanno ostacolato le indagini.
Sono state usate munizioni all’uranio impoverito? Il sospetto è fortissimo, avvallato dall’indagine del procuratore Domenico Fiordalisi, da cui l’autrice attinge.
Come pure restano i dubbi circa le esplosioni: si sono prodotte nano-particelle di metalli pesanti e radioattivi, e sono stati poi smaltiti e stoccati rifiuti pericolosi, napalm, armi chimiche-batteriologiche?
E’ in corso un processo, primo caso italiano, che vede otto alti ufficiali militari fra gli imputati, e che come altri processi più celebri che hanno coinvolto le forze armate (si pensi ad Ustica, le stragi degli anni Settanta, ecc) si adombrano le ipotesi siano state insabbiate indagini, falsate analisi, comprati testimoni. Ad oggi, solo il teatro civile, ha cercato di dare risposte: nella sala prove di un teatro, si mescolano le vicende degli attori e dei loro personaggi, protagonisti di una strage silenziosa e poco nota.
Sette, fra uomini e donne, danzano -con i pugni al petto- i passi della tradizione sarda, i quali, ben presto, divengono marcia militare e poi altro: spasmi dolorosi, provocati dal linfoma di Hodgkin, un tumore che si sviluppa nelle cellule del sistema immunitario del soldato Luigino (valido Mannìas, buono il lavoro sul corpo), grida di dolore di una madre, che non si rassegna alla morte di Maria Grazia, avvelenata da aria, acqua, cibo e giochi sui prati (calibrata la coppia Proietti Orzella-Agnesa). Divengono poi l’ostinazione del procuratore (incalzante Dwerryhouse) le macchinazioni di medici corrotti, di gerarchi militari e la paura dei padri-pastori, che non si rassegnano ad ammettere le cause delle malformazioni dei nuovi nati nel gregge ed in casa propria (Tontoranelli, sprezzante e impaurito nel duplice ruolo).
Risulta interessante l’uso delle voci, impiegate in ninne nanna a tenore e dolci mantra, che leniscono il dolore e l’amarezza, (tra le voci emergono quella di Spano e Fois) i boati prodotti dall’uso di petardi, l’odore acre della polvere da sparo e della terra, smossa dai corpi e dalle scope. Il disegno delle luci è suggestivo, come lo spazio descritto in apertura, che diviene ora poligono, ora campagna, ora tombe. Sul poligono, sulla campagna, sulle tombe spesso, calava una coltre di polvere, bianca, che “sembrava la neve, ma senza il freddo, che sembrava la sabbia, ma senza il deserto”, che non pareva nociva, ma lo era.
Quella coltre ha richiamato l’attenzione di Brie, che continua “a rincorrere il sole”, a pretendere che si esca dal teatro, migliori di quando si è entrati: più aperti, più lucidi e più irrequieti.
La creazione è corale al punto giusto, lasciando che emergano chiare le singole vicende. I testi, non scontati ma comunque aderenti ad un fattuale concreto, non sono romanzati. Nella regia emerge la guida Brie, soprattutto nell’uso del corpo, curato in ogni quadro. L’avvoltoio colpisce, denuncia, con una performance complessiva di buon livello. La sindrome di Quirra si lascia narrare, come la guerra, l’ecologia, la corruzione, i desaparecidos. Dai tempi del Tupac Amaru, del Farfa fino all’Odin, che si tratti di campesinos boliviani o degli abitanti di un villaggio sardo, è medesimo il diritto a difendere la terra e la vita che Brie racconta nel suo teatro.
L’AVVOLTOIO
Sembrava la neve
Testo e indagine di Anna Rita Signore
Regia Cesar Brie
Assistente alla regia: Anna Rita Signore
Con Emilia Agnesa, Agnese Fois, Daniel Dwerryhouse, Valentino Mannias, Marta Proietti Orzella, Luca Spanu, Luigi Tontoranelli
Musica: Luca Spanu
Costumi: Adriana Geraldo
Scene: Sabrina Cuccu
Luci: Loïc François Hamelin
Tecnico di compagnia: Fabio Piras
produzione Sardegna teatro
Visto al Teatro Massimo di Cagliari, in data 3-12-17