MATTEO BRIGHENTI | Emozioni pure. Kulunka Teatro non interpreta, incarna. José Dault, Garbiñe Insausti, Edu Cárcamo, fanno del nonno, del figlio, della nipote e dell’intero universo di Solitudes carne della loro carne.
L’identificazione è identità perfetta, perché avviene per ciascun personaggio in chi guarda, gli unici occhi presenti in sala. Gli attori, infatti, portano grandi maschere che nascondono il viso e, insieme, esaltano il resto del corpo: gesti e comportamenti sono i ‘colori primari’ a disposizione di noi spettatori per raffigurarci le situazioni in scena e associare alle maschere ciò che ciascuno prova o immagina.
Sembrano mutare espressione, ma non ne hanno una, sembrano addirittura parlare, eppure non hanno voce: siamo noi che lo crediamo e vediamo attraverso la nostra sensibilità e fantasia. Le maschere rimangono ferme e uguali a se stesse, noi invece cambiamo, esattamente come capita al nonno di Solitudes di fronte alle abitudini di una vita dopo la morte della moglie.
La forma qui è più che mai contenuto, e viceversa, raggiungendo un’universalità di linguaggio tale da essere compresa sui palchi di ogni ordine, grado e latitudine. Dopo Usa, Cina, America Latina, Sud-est asiatico e Nord Europa, lo spettacolo diretto da Iñaki Rikarte e scritto da tutta la compagnia con Rolando San Martín, è arrivato in Italia, a Firenze, grazie alla lungimirante scoperta del Teatro di Rifredi.
Nella passata stagione avevano già ospitato André e Dorine, il primo lavoro di Kulunka Teatro sull’amore di coppia messo alla prova dall’Alzheimer. Adesso il gruppo basco fondato nel 2010 da Garbiñe Insausti e José Dault pare intenzionato a tracciarne un ideale seguito, mostrando cosa succede a un anziano dopo che è rimasto vedovo. E fino a che punto deve arrivare e ridursi per avere una qualche forma di considerazione dalla propria famiglia.
Un angolo con due porte, un tavolino e due sedie: la scena a sinistra è un crocevia di destini, un interno popolare in miniatura, carta da parati a fiori, pendola e telefono a muro, quadretti, boccali, coppe e una bottiglia forse di Jägermeister. La televisione è un suono registrato e un telecomando conteso tra il protagonista e sua moglie: lui la spegne, lei la accende.
Al rintocco della pendola inizia tra i due una sfida a carte da O.K. Corral, i movimenti sono precisi, equilibrati, studiatissimi. L’ultimo, decisivo, scontro è al rallentatore, per aumentarne il pathos: lei vince, lui perde. Non accettando la sconfitta, in tutta risposta riaccende la tv.
La quotidianità è il gioco di vivere la normalità per quella che è, un’evocativa sinfonia mimica e gestuale. Una gioia che quando c’è la scacci, pensando di ritrovarla domani, quando invece non c’è più la rimpiangi, ricordando i domani sprecati. Quella partita in cui si vince anche se si perde, come l’amore, il nostro la inseguirà fino allo stremo di sé.
A destra del palco si apre una balconata su un fondale azzurro, il cielo, attraversato dal garrito dei gabbiani e dallo sciabordio del mare. Nonno, figlio e nipote spargono oltre la balaustra, come possono, le ceneri dell’anziana morta per aver preso la scossa mentre cucinava. Prima di cadere a terra stecchita, si è presentata dal marito con la maschera sporca di fumo e i capelli ritti, al pari di un qualsiasi fumetto o cartone animato. La morte può essere anche comica, ridicola, far ridere come piangere.
La scrittura di Solitudes è da impetuosa commedia degli equivoci, nondimeno i più in equivoco siamo proprio noi: ridiamo e poi ci sentiamo in colpa, perché quello che ritenevamo uno scherzo in realtà non lo è affatto. La leggerezza, l’ironia, dunque, servono a condurci senza scampo nell’abisso del dramma.
Il mondo esterno è un vicolo freddo, ci si va per buttare la spazzatura, portare a spasso il cane, bucarsi, chiedere l’elemosina, vendere e comprare il sesso. Dipendenze, insoddisfazioni, crisi di identità, allargano al sociale i confini di solitudini e incomunicabilità familiari. Tanti, forse troppi temi, che per poco riducono lo slancio intimo di Solitudes a una pantomima di alto mestiere (ad esempio, la passeggiatrice neofita che non si regge in piedi sui tacchi), giusto il tempo di capire che il viaggio dal particolare al generale è di andata, ma anche ritorno.
Nella casa, difatti, la pendola suona per una stanza deserta, l’anziano è fuori a mendicare la compagnia di qualcuno con cui giocarsela alla pari. Le carte che lascia andare come strette di mano a vuoto sono il regalo di compleanno del figlio e della nipote. C’ha messo talmente tanto a scartarlo che la ragazza, per sottolineare lo sforzo di lui e il suo nervosismo, ha accennato al flauto il tema di Vangelis per il film Momenti di gloria di Hugh Hudson.
L’anziano sa bene quello che sta vivendo, ma la famiglia vede o, piuttosto, vuole vedere soltanto la superficie della realtà che gli si è sgretolata tra le mani, l’apparenza di gesti timorosi, passi incerti, pensieri sfuocati. Siamo insofferenti alla vecchiaia, non abbiamo la pazienza di accettare una velocità diversa dalla nostra, non ci prendiamo, soprattutto, la responsabilità di ripagare l’affetto che ci è stato dato. Perché questo chiede il protagonista di Solitudes, insistendo con il giocare a carte: affetto.
Però, l’unica cosa che conta per i familiari (la società) è la salute del corpo, non dello spirito. Curare, dare le pillole, quasi che la vita della terza età sia solo restare in vita, sopravvivere: una parvenza di normalità – il “va tutto bene” – che ci fa sentire liberi di andare avanti come se niente fosse.
Lo sguardo perso e il cappellino a festa paiono far sprofondare il nonno nel baratro della sua morte interiore. La sola amica che gli rimane è una mosca invisibile e fastidiosa che ronza per il palcoscenico, un rapporto che ricorda La pulce, la fiaba di Giambattista Basile ne Lo cunto de li cunti in cui il re di Altomonte nutre una pulce con il suo sangue: l’uomo alleva il suo cadavere.
Il ravvedimento dei parenti arriva, ma è tardivo e maldestro. Costretto al tavolo quasi con la forza, l’anziano, ormai vecchio del tutto, abbandonato pure da se stesso, non sa più che carte usare. Giocano loro per lui, con un accanimento uguale e contrario al disinteresse di prima.
Dall’estrema gioia Solitudes scolora nell’estrema sofferenza. Ma l’impegno poetico fattosi a questo punto civile di Kulunka Teatro è più forte di qualsiasi meschinità parentale (collettiva). E quindi, davanti a una vita indegna di essere vissuta la morte può essere anche umana, altruista, far piangere come ridere.
Kulunka Teatro
SOLITUDES
di José Dault, Garbiñe Insausti, Iñaki Rikarte, Edu Cárcamo, Rolando San Martín
con José Dault, Garbiñe Insausti, Edu Cárcamo
regia Iñaki Rikarte
musica Luis Miguel Cobo
maschere Garbiñe Insausti
Visto mercoledì 6 dicembre 2017, Teatro di Rifredi, Firenze.
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Che meraviglia! Ci sarà una tournée?