TANIA BEDOGNI|L’ombra della sera è il titolo della creazione della Compagnia Teatropersona presentata come studio a San Giminiano, Festival Orizzonti Verticali 2014, in anteprima a Modena, Trasperenze Festival 2015 per poi debuttare in Svizzera nel 2016 in occasione della commemorazione dei cinquant’anni dalla scomparsa di Alberto Giacometti (1901-1966).
L’ombra della sera è il nome che il poeta Gabriele D’Annunzio avrebbe assegnato alla statuetta votiva etrusca del III sec. a.c proveniente dall’antica Velathri, l’attuale Volterra. Testa e piedi di normali proporzioni delimitano un corpo filiforme proprio come le ombre lunghe prodotte dalle luci del tramonto. È suggestiva l’ipotesi che lo studioso Piero Airaghi introduce a fronte del titolo dannunziano: l’opera bronzea di 57,5 centimetri che presenta abrasioni sulla parte posteriore sarebbe la raffigurazione, orizzontale appunto, dell’ombra che produrrebbe la figura di un fanciullo di 22 centimetri esposto alla luce della sera.
Giacometti era attratto dalle opere del passato remoto che compaiono spesso nei suoi schizzi: a Giuseppe Marchiori amico e critico spetta infatti il primo accostamento delle sottili figure dello scultore “all’idolo volterrano, all’uomo della notte”.
Ma l’artista era anche uomo irrequieto nella sua ricerca di una rappresentazione, che sapeva impossibile, della realtà, ma che sentiva come possibile proprio in quelle figure così ostinatamente fragili.
Può quindi il linguaggio teatrale restituire l’inquietudine plasmata con ferro e argilla?
Alessandro Serra ha composto per questo spettacolo ritratti dal taglio fotografico: pochi elementi in equilibrio tra ombra e sguardi di luce per definire uno spazio tempo dove il corpo di Chiara Michelini ha condensato opere e scritti di Giacometti esponendoli ad istantanee in movimento.
La prima scena si apre con una luce fissata al muro: come lampione illumina un marciapiede dove passeggia elegante e nera la prima delle tre donne che popoleranno il mondo femminile di questo ritratto per una sola interprete. Un cappotto maschile abbandonato su una ringhiera e una minuscola sedia di legno sono gli unici elementi presenti.
Il suo vai e vieni è frammentato in sequenze di movimento che dirigono gli arti in traiettorie futuriste: è un donna macchina, come ticchettio impaziente per un appuntamento mancato. L’uomo non compare sotto le luci ora estese: lei è nostalgica di un legame con una presenza la cui assenza si può indossare solamente come un vecchio cappotto.
Un brano musicale sottolinea le note malinconiche di questo incontro. Il passo a due è svuotato dell’altra metà: una mano tesa che non ha palmo da stringere, uno sguardo che non è ricambiato, un paio di scarponi senza piedi. La danzatrice non è solo movimento rapido e incisivo, è volto straordinariamente espressivo: nei suoi occhi si legge ciò che vorrebbe vedere e che non c’è, nella sua postura affiorano le parole che non pronuncia.
I suoi capelli diventano disperazione una volta liberati dal piccolo cappello anni trenta con cui ha giocato come un mimo leggero e abile. Questo primo personaggio ritornerà con calze e intimo sempre neri per un amplesso scomposto da sussulti che sconquassano il suo corpo chiaro e sottile. Solo il suono del respiro, dei tonfi e dei guizzi sotto una piccola lampada che oscilla languida a pochi centimetri dalla figura sdraiata. Apparirà e scomparirà più volte per poi chiudere lo spettacolo in bilico su una sedia-piedistallo: la modella che diventa opera d’arte per una “danza della colonna vertebrale” sulle note di Together We Will Live Forever di Clint Mansell.
Alla passione di questa donna, la prostituta Caroline, fa da contraltare, alternandola in scena come nella vita, la composta presenza della moglie Annette. Camicia bianca e gonna lunga. È lei che porterà sul palco una sedia e un comodino in stile Art Nouveau: la casa, la quotidianità fatta di piccoli gesti lenti e discreti. E poi, la febbrile danza delle mani che creano: assemblano argilla immaginaria sotto una luce intermittente che confonde e stravolge il viso assorto e rapito di una donna che diventa uomo, l’artista.
Come vertice temporale tra questi due opposti universi femminili, sempre silenziosi, prende parola la madre di Giacometti, Annetta, morta novantenne.
Un paralume fissato a terra su uno stelo di metallo rischiara con una luce tenue la minuscola sedia che la attende. Superba la trasformazione da una corpo di giovane donna a quella di una madre anziana, che più avanza più diventa piccola e rigida di passo in passo. Sussurra un rosario di parole; parole di comprensione per questa complessità inquieta di un figlio mai soddisfatto che si consuma creando.
Ed è proprio osservando le sue creazioni che possiamo rintracciarle nella qualità delle partiture di movimento generate dalla Michelini in questa sequenza: L’homme qui marche (1960), Femme assise (1949/50), Femme debout (1960), Femme égorgée (1933) ed infine L’homme qui chavire (1950).
Uno spettacolo che, pur senza intenzione narrativa, restituisce fotografie di una bellezza vibrante e commuovente, di immediata percezione, in una quadro complessivo misurato e accuratamente levigato.
Testimone di questa accessibilità di contenuto, pur così complesso, è la frase pronunciata, al termine dello spettacolo, da una ragazza del giovane gruppo che da anni il Teatro dei Venti accompagna nella visione e nell’incontro con gli artisti per una educazione allo sguardo: “non ho capito tutto, ma mi è piaciuto tutto”.
L’OMBRA DELLA SERA
Regia, scene, luci |Alessandro Serra
con |Chiara Michelini
produzione | Teatropersona
co-produzione | Fondazione Centro Giacometti (CH), ARMUNIA_Castiglioncello
Con il sostegno di | Regione Toscana Sistema regionale dello spettacolo dal vivo, Nuova Accademia degli Arrischianti di Sarteano, Fondazione CA.RI.CIV.
Durata 60’
Visto il 15 Dicembre 2017, Teatro dei Segni, Modena, nell’ambito di Trasparenze Stagione