RENZO FRANCABANDERA | E’ curioso quando un fenomeno osservato nel tempo rivela la sua invarianza. Stupisce ancor più quando oggetto dell’osservazione è il genere umano a duecento anni dalle due osservazioni. Che sia monarchia o repubblica, laguna o continente, pre o post illuminismo, di signorotti post-feudali o di nuova borghesia del boom industriale. Prima o dopo cena. Poco importa. L’è semper istèss.
Nemmeno nell’epoca del post industriale e del digitale le cose vanno molto meglio. Quindi fra la bottega dei vizi e delle piccole lussurie che circonvengono l’animo umano disegnata da Goldoni del 1750 e il caffè-casinò a questo dichiaratamente ispirato e riscritto da Fassbinder del 1969, passa poca differenza.
Effettivamente inquieta quanto sia agevole considerare anche in piena new economy odierna, ad ulteriori cinquant’anni di distanza, nel 2018, quanto la natura dell’uomo sia impermeabile al sistema socio-economico, ai tempi, ai luoghi. Insomma la lenona e crapulona umanità da bisca che frequentava la bottega del caffè è la stessa che abitava cinquant’anni fa la riscrittura del classico goldoniano realizzata da Reiner Fassbinder, e che in questa stagione, grazie ad una produzione dello Stabile del Friuli Venezia Giulia viene portato in scena da Veronica Cruciani con un cast quasi anomalo per numerosità visti i tempi che corrono: otto interpreti per raccontare vicende di giochi d’azzardo in cui ci si arriva a giocar la moglie, prestiti di denaro, chiacchiere da bar e convenienze dei rapporti sociali nel tentativo di dissimulare le debolezze della natura umana.
Lo abbiamo visto al Teatro Fontana di Milano nella sua bella stagione.
Dalle note di Vivaldi a quelle della techno (ben scelte da Riccardo Fazi di Muta Imago) il messaggio è chiaro: sul palco vediamo in teoria Goldoni, filtrato dal genio tedesco, ma in pratica parliamo dell’oggi. L’ispirazione alla Venezia goldoniana è chiara nelle scene di Barbara Bessi che con uno scorcio di architettura arabescata con motivi che richiamano vagamente stucchi del tempo dei Dogi, risolve il problema di ambientare in un non-luogo che però rimanda al prototipo.
Il resto lo fa la regia, che è sì della Cruciani, che fa un buon lavoro sul gruppo di attori permettendo a soggettività molto composite di amalgamarsi e tenere un bel ritmo per tutto il tempo della recita senza uscire mai da un intento corale e coerente da inizio a fine spettacolo, ma è anche di Gianni Staropoli.
E ci spieghiamo: questo è il classico caso di scuola, infatti, per dare chiaramente l’idea di come un disegno luci possa indirizzare uno spettacolo e il suo spessore emotivo. Le luci creano luoghi immaginari, partiscono l’ambiente scenico, creando insieme alla scenografia un primo piano e uno sfondo, e dentro il primo piano un luogo immaginario (a sinistra per lo spettatore) che è il caffè con l’arabesco veneziano alle spalle, e uno a destra, senza un fondale che non sia la luce riflessa su una quinta coricata, che è il luogo delle perversioni. Questo spazio e quello dietro l’arabesco ospitano di volta in volta, in luce o in controluce, gli attori, in un continuo dialogo fra presenza in recitato e sola presenza fisica.
Ma il gruppo di attori resta di fatto sempre in scena, eccezion fatta per qualche veloce cambio costumi (e maschere – poche invero – e sempre nella logica Eyes wide shot del festino danzereccio). E sono proprio le luci e le musiche di Riccardo Fazi a legare emotivamente i passaggi scenici creando una continuità ma anche la costante rottura fra traccia originale goldoniana, salto fassbinderiano e occhiolino ai giorni nostri. E’ come un disco in cui la puntina salta ma incredibilmente riesce comunque a comporre una frase coerente e non distonica.
Ne risulta un esito formalmente compatto, attoralmente generoso, dove la Cruciani riesce a mettere insieme le intenzioni collettive e le inclinazioni soggettive per uno spettacolo che, nelle quasi due ore di recita, non ha flessi di attenzione o di ritmo, e conserva un senso del collettivo e del canone estetico leggibile sempre. Queste stesse cose potrebbero anche essere punti deboli, visti di converso, perché potrebbero rivelare un segno monodirezionale, ma questa è forse la principale differenza rispetto a alcune regie precedenti della Cruciani in cui la monodirezionalità delle intenzioni finiva, a nostro avviso, per togliere non di rado tridimensionalità alla recita in generale.
Qui, forse dando più spazio agli spifferi musicali e visivi nelle ispirazioni sceniche, la Follia del genere umano (quella vivaldiana è colonna sonora iniziale) arriva bene in platea e, senza pretese rivoluzionarie ma con cura e coerenza, fa giungere il messaggio dell’allestimento con chiarezza e precisione.
DAS KAFFEEHAUS/LA BOTTEGA DEL CAFFE’
Di Reiner Werner Fassbinder da “La bottega del caffè” di C. Goldoni
Interpreti: Filippo Borghi, Ester Galazzi, Andrea Germani, Lara Komar, Riccardo Maranzana, Francesco Migliaccio, Maria Grazia Plos, Ivan Zerbinati (attore ospite)
Traduzione: Renato Giordano
Scene: Barbara Bessi
Costumi: Barbara Bessi
Luci: Gianni Staropoli
Drammaturgia sonora: Riccardo Fazi
Foto di scena: Simone Di Luca
Regia: Veronica Cruciani
Produzione: Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia
Le luci , le forme ,Le esteririta cambiano seguendo il trascorrere del tempo ma la sostanza in questo caso:la natura umana quella e'(mille le sfaccettature…si). Luogo privilegiato in cui questo accade senza fare troppi danni (volendo)non puo’essere che il teatro.Trasformato anch’esso dal tempo sia nelle scene,attori…..E pubblico.Nella reata’signori accade la stessa cosa ma i danni sono sotto controllo?