RENZO FRANCABANDERA E MICHELA MASTROIANNI | MM: Ma ha ancora senso la definizione di teatro politico? Oppure è possibile ipotizzare nuove classificazioni e nomenclature?
Prima di iniziare vi avvertiamo semplicemente che questa lettura vi chiederà qualche minuto in più della media, e che questa che vi proponiamo appartiene al genere delle long reads.
Teatro politico, dunque.
Allora: come per ogni rituale a contenuto simbolico, che si tratti di simboli verbali o iconici, la partecipazione al qui e ora della comunicazione teatrale permette di conoscere la struttura della realtà politica, sociale, culturale che lo esprime e, contemporaneamente, ha un importante impatto emotivo-empatico su chi vi partecipa. Ne era pienamente consapevole Trozckij, che ammetteva che non bastavano gli appelli razionalistici alle masse per ottenerne la mobilitazione rivoluzionaria, a causa del desiderio dell’uomo “di una dimensione teatrale” e del suo bisogno “di una manifestazione esteriore delle emozioni” (Binns 1980, pg. 594).
Con finalità completamente opposte, nel suo manuale sul perfetto governante, su come acquistare e su come mantenere il potere, Machiavelli suggeriva al Principe di “tenere occupati ’e populi con le feste e spettaculi” perché le masse ignoranti tendono sempre a giudicare più “alli occhi che alle mani”, cioè secondo le apparenze, piuttosto che in base alla realtà e all’esperienza (Il principe, cap. XXI). E ancor prima Giovenale, poeta latino d’età imperiale, nella Satira X sintetizzava le ambizioni della plebe, ormai colpevolmente orfana della libertà repubblicana, con l’espressione panem et circenses (pane e spettacoli sarebbero dunque capaci di acquietare ogni potenziale istanza rivoluzionaria).
Rincara la dose Freud secondo il quale “l’arte offre alla vita surrogati di soddisfazione”, illusioni; essa è una “fonte di dispersione di energie che potrebbero essere applicate con più profitto a migliorare le sorti degli uomini”. Il surrogato di soddisfazione nel processo della comunicazione teatrale, favorito dalla prassi dell’empatia o immedesimazione, la “catarsi”, era ritenuta da Brecht repressiva, “cioè di sostegno della sistemazione attuale della società, e alienante, in quanto alienava all’uomo la volontà di realizzarsi nella realtà trasformandola” (Massimo Castri, Per un teatro politico, pg. 133).
Il teatro non può certo cambiare il mondo, ma può cambiare gli spettatori, il loro modo di leggere, comprendere, giudicare ed entrare in relazione con la realtà. Quando ci interroghiamo sul teatro politico dobbiamo essere prima di ogni altra cosa consapevoli dell’ambiguità del termine: ci riferiamo alla comunicazione teatrale dell’impegno civile o dell’intrattenimento distraente?
RF | Ecco, la definizione di Teatro politico secondo me è una cazzata. Che poi dobbiamo capirci, su cosa significa politica. Tutto è politica! La parola è politica, le azioni sono politica, il comportamento soggettivo è politico. Fare politica è esercitare nella vita concreta, e non su un palco, un sistema di valori a cui si sente di aderire. E lavorare nella società per affermarli. Il resto è comunicazione. Sono tag. Condivisioni. Like.
La vera verità è che la democrazia pop ha colto impreparata la società e anche il mondo dell’arte. Lo ha spiegato benissimo la compagnia estone Theatre NO99 che per fare arte e pensiero sull’influenza dei mass media e dei social media sulle rivoluzioni ideologiche e politiche in corso, invece che fare spettacoli, ha creato attraverso una performance di circa due mesi, un movimento populista, estremista, accolto come una reale forza politica e che è stato accreditato nei sondaggi preelettorali di un riscontro alle urne del 20%. La nascita del movimento e la sua ascesa, fino alla convention di presentazione del candidato premier, evento conclusivo della performance, è raccontato nell’agghiacciante docu-film Ash and Money (lo abbiamo visto a Milano a Zona K, uno dei luoghi dove davvero in Italia si fa arte e politica – Guardatelo a questo link ).
Bisogna tornare ad essere un po’ situazionisti, hacker, a fare arte dove è scomodo, costringerci a parlare con quella parte di società esclusa dall’accesso all’arte a 40 euro per biglietto, a trovare il rimedio alla deficienza sistemica che sta investendo la società a livello planetario. Bisognerebbe tornare ad avere coraggio. Zitti zitti stiamo tornando come i minatori di cento anni fa, senza diritti.
MM: Eppure furono proprio i minatori sardi di Buggerru nel 1904 i primi in Italia ad avere il coraggio di ribellarsi e di chiedere il ritorno ad un diritto di cui erano stati privati (la pausa pranzo era stata ridotta a 30 minuti, impedendo così ai minatori di risalire in superficie per consumare i loro pasti. Tipo i cassieri della grande distribuzione o gli impiegati dei call center adesso, insomma). L’episodio si concluse tragicamente con la richiesta del Direttore della miniera all’esercito di sparare sui manifestanti. Furono uccisi 3 minatori, ma da quel fatto nacque il primo sciopero generale italiano. L’informazione e la conoscenza generano, anche se non necessariamente, coscienza consapevole e stimolo all’azione. Ecco perché ha profondamente senso che la società, l’arte, il teatro, indaghino ed esplorino le specificità e le contraddizioni della democrazia pop.
Gianpietro Mazzoleni e Anna Sfardini, autori del volume “Politica pop”, analizzano le forme delle spettacolarizzazione della politica e della politicizzazione dell’intrattenimento, la nascita del nuovo genere dalle forme ibride dell’infoteinment, del politeinment e delle soft news, “un ambiente mediale in cui politica e cultura popolare, informazione e intrattenimento, comico e serio, reale e surreale si fondono in una nuova miscela espressiva” che secondo alcuni studiosi offrirebbe un’informazione minima, ma sufficiente, a uno spettatore-cittadino da riconciliare con la politica, una risorsa civica capace di dare “voce e visibilità, meglio di ogni altra comunicazione politica, alle informazioni e alle ‘cose’ che oggi più…interessano: i problemi, i valori e i temi di discussione che parlano della vita di tutti i giorni e dei cittadini stessi”.
Tutte le analisi sui comportamenti degli italiani in materia di accesso all’informazione raccontano oramai di un information mix o di una dieta informativa basata sempre di più su ingredienti social (Facebook e WhatsApp svettano su tutte, seguono Instagram e Twitter), mentre è in lieve calo la TV, e il crollo dei quotidiani non è compensato dalla leggera crescita degli abbonamenti ai quotidiani online. In questo information mix vanno acquistando valore e peso anche forme di non-fiction storytelling, il cui obiettivo strategico è di rendere la conoscenza accessibile attraverso gli strumenti e le tecniche tipiche della narrazione letteraria.
RF: Stanno venendo fuori emergenze incredibili dall’impatto delle nuove culture mediali, delle tecnologie e della politica, orwelliane a dir poco, con narrazioni distopiche tali da far nascere il concetto di post-verità. Quindi è proprio il concetto di politica e di arte politica che sta cambiando radicalmente.
L’ha capito Antonio Rezza (con Flavia Mastrella) che di politica non ha mai parlato in un suo spettacolo, ma ha esercitato per decenni una violenza dell’arte sulla morale comune, a rischio che lo spettatore lo denunci per oltraggio alle personali pseudo sicurezze, mentre viene vessato dall’artista con una prossimità artistico-fisica “scandalosa”.
In questo dibattito sugli spettacoli che affrontano il tema politico si sta, a mio avviso, confondendo il comunicare con l’esercizio o il sostegno ad un sistema di valori rappresentato attraverso l’arte.
Prendiamo ad esempio Acqua di colonia di Frosini e Timpano (l’ho visto al Filodrammatici quest’anno ma era già stato a Milano al Pim Off), un lavoro che ha molto girato, e a ragione, perchè è una creazione dalla cifra originale e particolare, capace di raccontare una storia, in qualche modo addirittura La Storia, senza farsi narrazione. E questo per me è un valore, perchè dietro il teatro di narrazione sempre più spesso si nasconde una pelosissima morale strisciante che divide il mondo in modo manicheo fra buoni e cattivi, fra dotati di coscienza e sentimento e bruti ignoranti; quel noi e loro che ovviamente esiste ma che, invece che abbattere a suo modo le barriere, le rinforza.
Certo, anche in Acqua di colonia esiste un pensiero che divide il noi e il loro, e anzi, diciamo che diventa proprio esemplare, nel momento in cui non ad uno specifico “loro”, ma anche solo al suo immaginifico materializzarsi nella mente dello spettatore, l’artista sputa addosso. Ma come: prima mi dici di cantare Faccetta nera e poi mi sputi addosso? Sì, lo faccio e a giusta ragione: perchè quello sputo non sta colpendo il presunto fascista, ma quell’indulgenza della memoria per cui alla fine il ricordo perde il suo fardello doloroso e diventa oleografica, persino unificante, amalgama di un sentimento nazionale fatto di canzoncine, palle di vetro con dentro la neve, bancarelle con le spilline del duce in Romagna o manifesti dall’edicolante, e cerimonie con le braccia tese, che ora pare non facciano più reato. E’ commemorazione. Da questo punto di vista il maggior valore concettuale di Acqua di colonia è nella costruzione drammaturgica ben strutturata, costruita sulla tecnica didattica della ridondanza: prima ti dico che faccio una cosa e poi la faccio veramente. Fra il dire e il fare poi, magari inserisco la deflagrante potenza dell’arte, del contrasto, della scorrettezza politica. Per cui fra la finzione de “l’angioletto negro” e la sua apparizione sotto forma di peluche scimmiesco sul palco, magari metto un africano vero sul palco, che per tutto il tempo ti chiedi: ma questo capisce, non capisce, da dove cazzo l’hanno preso, gli avranno dato 10 euro per star lì sulla sediolina a sentire di quando andavamo lì a sparare a suo nonno? Acqua di Colonia è ben pensato e va segnalato perchè affronta il tema della conoscenza della storia collettiva in modo intelligente, usando meccanismi di ragionamento e di induzione al fare, al pensare, al conoscere prima di dire, che sono in disuso.
Ma poi si saranno accorti che magari rischiavano di fare uno spettacolo da maestrini, e hanno fatto una seconda parte totalmente distruttiva rispetto a tutto quello che avevano creato, lasciando il pubblico con le amare considerazioni sul maltrattamento della nostra intelligenza, più che con il senso di colpa per non ricordare questa o quella vicenda del colonialismo di un secolo fa.
MM: Il documentatissimo Acqua di colonia non ricorda che nel 1935 fu persino celebrata la “giornata delle Fedi”, in cui agli italiani fu chiesto simbolicamente di sancire il loro patto di fedeltà al regime, offrendogli gli anelli nuziali d’oro, un rito inventato per finanziare l’impresa coloniale in Etiopia. E non è una colpa né un limite, perché da lavori come questo non si attende la precisione e la completezza del saggio storico o dell’inchiesta giornalistica. Acqua di colonia rappresenta infatti uno di quei casi, sempre più presenti e apprezzati anche in Italia, dopo USA e Gran Bretagna, in cui il teatro (la narrazione in genere) si intreccia con l’informazione, con l’inchiesta giornalistica, con l’indagine scientifica, con l’esperienza autobiografica, con la storia e l’analisi socio-economica di dati e fatti reali. “La ricerca, anche personale, di strade informative originali ha prodotto intrecci tra pratiche giornalistiche e pratiche teatrali”, spiega Gerardo Guccini. Nello stesso modo la letteratura si è ibridata con le varie forme di saggistica, dando vita ad una nuova espressione narrativa, la non-fiction, che in alcuni casi viene chiamata anche faction, ovvero una fiction basata sui fatti. Al genere, per intenderci, si può ascrivere trasversalmente la non-fiction story Gomorra, film come Il pianista, o i monologhi teatrali di Ulderico Pesce, insieme a moltissimi altri esempi di “nuovo neorealismo”, in cui la narrazione riscopre la realtà, fino a livelli di narrazione teatrali-multimediale in stile Afghanistan – il grande gioco, di Teatro dell’Elfo.
L’assenza di un punto di vista morale nell’organizzazione della materia sarebbe, o potrebbe essere, secondo lo scrittore Martin Amis, il punto debole del nuovo genere. La sottrazione del principio ordinatore morale rappresenta, al contrario, l’elemento più dirompente dell’impianto drammaturgico di Acqua di colonia, che lascia deflagrare, con apparente leggerezza ed innocenza, le persistenti contraddizioni del pensare e dell’agire di noi, uomini nella storia, esseri sociali, esseri politici.
RF: Allora, se di politica dobbiamo dire, è politicissimo ad esempio il Monopolista, di Quotidiana.com (visto a Milano al PimOff) e anche qui non perchè parlano di acqua pubblica o privata quando nella finzione finiscono sulla casella di Società acqua potabile, ma perchè costruiscono un ragionamento attorno alla rappresentazione della realtà nella dinamica ludica e nell’abbattimento della membrana che divide gioco dalla realtà.
Anzi, sempre più spesso quando gioco sono correttissimo e rispetto le regole, conto le caselle, mi accanisco perchè tutti paghino fino all’ultimo, poi nel quotidiano va benissimo che la logica sopraffattoria e accumulativa, feroce e spietata con cui devo arrivare a conquistare il mondo, in Monopoli o Risiko, diventi la regola nel vivere civile, quotidiano, l’approccio deresponsabilizzato e deresponsabilizzante per cui va bene qualunque cosa.
E penso che questa riflessione che loro fanno spieghi poi il tema del pensiero debole, ma non rassegnato, che sta dietro la loro filosofia. Come a dire: so che sono minoranza, che la tutela del mio sistema valoriale è in alto nel mio personale agire quotidiano, so che sono debole e che perderò la partita, perché dall’altro lato ho Google, Facebook, la potenza miliardaria di oligopolisti e monopolisti che detengono il potere. Che senso ho? Che senso ha quello che faccio, io cittadino dotato di una morale?
Monopolista è peraltro portato avanti con una gustosissima attoralità, per cui sai bene che non stanno giocando veramente, ma loro fingono di sì, e su questa finzione si regge la maggior parte del concetto dello spettacolo. E’ politico interrogarsi su che senso abbia agire i propri valori in una società in cui uscirai sempre sconfitto?
MM: Massimo Castri, attraverso il già citato Per un teatro politico, risponderebbe che la capacità “di indurre nello spettatore nuovi modi di pensare e nuovi strumenti di analisi, nuovi atteggiamenti mentali e comportamentali” è la cifra più autentica dell’efficacia politica del teatro, o meglio, di quella che lui preferisce chiamare la comunicazione teatrale.
RF: Io ci tengo solo a dire che probabilmente più di uno spettacolo teatrale, ancorché seguitassimo, può una serie tv sui criminali (si ricordi il super classico La Piovra degli anni Ottanta, Il capo dei capi, Gomorra, Narcos).
E più di una serie tv può una falsa notizia messa in rete 24 ore prima di andare a votare, che sostiene che tizio o caio vuole abolire la scuola pubblica, raddoppiare il canone o far pagare il pedaggio sul GRA. E si spostano 100.000 voti in due scrollate di schermo. Il teatrante e i suoi anche generosissimi riti sul tema della migrazione fatti all’alba sulla costa salentina come ha fatto Mario Perrotta, o nel gelo di gennaio dietro Stazione Centrale a Milano, come ha fatto Gigi Gherzi, rispetto a tutto questo, assomiglia romanticamente a chi vuole fermare la valanga con la paletta del gelataio, anche quando la paletta è più grande, e hai messo in scena La classe operaia va in paradiso, come hanno fatto Longhi e Guanciale, per non dire delle Albe, che hanno fatto leggere a mezza Ravenna la Comedia di Dante.
Voglio dire: tutto è politica. Non esiste il teatro politico. Esiste il fare nella società per cambiarla, per educarla. E chi vuole farlo col teatro, fa bene a farlo. Consapevoli di essere deboli, quasi certamente perdenti. Ma è bello farlo non rassegnati.
Se invece volessimo sperare di cambiare il corso della Storia, ai giorni nostri, forse facciamo prima a pensare a mettere in giro su Facebook una notizia falsa il giorno prima delle elezioni e a condividerla in massa in 10 minuti. Centomila artisti che spammano una bomba ad orologeria che intasa la rete. Ecco, magari con una performance del genere potremmo pure far diventare Timpano ministro.
Voi scherzate. In Estonia quasi ci riuscivano. Non con Timpano ovviamente.
E comunque io adoro i gelatai. E se proprio devo soccombere, preferisco farlo con la mia paletta in mano insieme ad altri cento illusi come me. Magari sulla costa salentina. Con qualcuno che mi legge Dante.