RENZO FRANCABANDERA | “Scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia, scegliete un maxitelevisore del cazzo, (…) Scegliete la buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita; (…) Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio, ridotti a motivo di imbarazzo di stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi. Scegliete il futuro, scegliete la vita. Ma perché dovrei fare una cosa cosí? Io ho scelto di non scegliere la vita. Ho scelto qualcos’altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?”
Niente di tutto questo!
Perchè la prima cosa era cancellare proprio tutto questo. L’archetipo.
Specie se tutto questo non è nemmeno uno spettacolo teatrale ma, come in questo caso, un film (regia di Danny Boyle). E che film!
Nel 1999 il British Film Institute l’ha inserito al decimo posto nella lista dei migliori cento film britannici del XX secolo.
Ma prima ancora che un film, Trainspotting è un romanzo, di Irvine Welsh. Del 1993. Un libro privo di ogni linearità (come i suoi personaggi, tanto che a lungo non si capisce chi parli, così che i capitoli sembrano storie brevi). Protagonista, oltre ciascuno di loro, lo stile di vita, ben oltre i limiti della legalità di un gruppo di giovani edimburghesi di periferia, ognuno dei quali dipendente da qualcosa: droghe, violenza, sesso.
Giusto per completare il quadro di quegli anni con un’altra pennellatina delicata, nel 1999 sarebbe uscito il film Fight Club di David Fincher, basato sull’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, romanzo pubblicato proprio nel 1996.
Trainspotting insomma è una combinazione di libro e film che ha raccontato un’epoca. E che epoca!
Entro in sala (a Teatro i – Milano) e, che io voglia o no, mi sale nel cervello la techno trance degli Underworld e quel Born Slippy, sempre del 1996 e tormentone del film, traccia contenuta nel mitico album Second Toughest In The Infants (a proposito di remake, gli Underworld recentemente hanno fatto un concorso per rifare il video ufficiale di quella traccia, concorso vinto da Michael McCool. In fondo a questo articolo i link alle due versioni: originale e remake; sparateveli però dopo aver finito di leggere, che se no vi perdo subito… ). Per fortuna nello spettacolo non c’è.
Sono passati quasi 25 anni dall’uscita del libro. Cosa è Trainspotting ora?
Sicuramente un titolo leggendario, un brand cui forse non sono abbinate nemmeno la lettura del libro o la visione del film. Un nome che si conosce. E basta.
Riproporre il brand, il mito, a 20 anni di distanza. Come e perchè.
Lo ha fatto Sandro Mabellini, che appartiene alla generazione, comune a chi scrive, che probabilmente in quell’anno era nella tardo adolescenza, quell’età fra i 20 e i 30 in cui hai deliri di onnipotenza e pensi che potrai diventare segretario generale dell’ONU o Che Guevara. O restare un cretino qualsiasi.
E quindi il senso profondo dell’attacco del film ti risuona nella testa come vangelo.
Insomma il film a teatro.
Ma è un falso. Perchè il libro arrivò a teatro prima che al cinema.
Ci prendiamo qualche altra riga per essere precisi e dire le cose un po’ per bene.
Il primo adattamento di Trainspotting per la scena è infatti di Harry Gibson che risale al 1994 e fu portato in scena nel 96, diretto da Ian Brown per il Traverse Theatre di Edimburgo. Sempre per gli interessati, a questo link un’intervista a Gibson che spiega molte cose dell’adattamento teatrale e della sua ripresa del 2006, compresa la centrale questione della traduzione dello slang e del turpiloquio. Nel testo inglese risuonava 147 volte la parola “cunt” (trad. “figa”), qui in questa versione italiana “cazzo” forse oltre 200 volte. Nel 2006 nell’intervista Gibson si dice preoccupato per l’imminente traduzione in Giapponese, perchè gli dicono che in quella lingua non esistano parolacce…
Stringendo un po’ per arrivare a noi, questo adattamento per la scena di Gibson fu tradotto già nel 1998 da Wajdi Mouawad e Martin Bowman in franco-canadese. Per i francofoni (ma ormai per tutti usando un traduttore online qualsiasi) interessante questo link in cui Murielle Chan Chu dell’Università di Concordia di Montreal confronta romanzo e adattamento teatrale, includendo una divertente tabella sulla traduzione del turpiloquio nel libro, nella intermedia traduzione belga e nella versione di Mouawad.
In questa versione, come in quella di Gibson, l’umanità numerosissima e devastata di Welsh si riduce a soli quattro personaggi, Renton, Begbie, Alison e Sick Boy/Tommy, schema riproposto anche dall’ottimo Emanuele Aldrovandi nella pulsante traduzione in italiano, dove la scommessa della restituzione di senso, di clima, di atmosfere, ma anche di turpiloquio, è precisissima. Il lavoro di Aldrovandi vale se non mezzo spettacolo, almeno un terzo.
L’altro terzo (e più) ce lo mette la regia di Mabellini. Una regia con la tecnica a vista, e che cita il film sottilmente senza fare cose smaccate, come nella scena di intonaco e murales, su cui campeggiano i nomi dei personaggi e che richiama anche uno dei primi fotogrammi del film, che riproponiamo qui di fianco (con la casa di Madre Superiora, lo spacciatore). Frequenti sono, comunque, anche nei numerosi allestimenti britannici i fondali di scena con scritte spray e abbozzi di murales su pareti scrostate.
Gli attori aspettano il pubblico seduti in una scena in cui oltre a questo intonaco scritto a fondo, c’è al centro il tavolo con i mixer e uno schermo video piccolo che sa di anni 90 e da cui arriveranno messaggi in quel codice nuovo che caratterizzò l’epoca. E poi sulla destra una tenda da campeggio, simbolico rimando all’instabilità ma anche alla povertà di quella generazione di senza casa e senza fissa dimora; e poi a sinistra, come fossero microfoni, quattro lampade alogene di intonazione arancio, che serviranno per tutto il narrato drammaturgico a sottolineare la parola. E alcuni sgabelli bianchi, capaci all’occorrenza di trasformarsi in sedute da cesso.
I quattro interpreti Michele Di Giacomo, Riccardo Festa, Valentina Cardinali, Marco Bellocchio (la terza delle tre parti) sono notevolmente guidati ad un risultato attorale collettivo e soggettivo di alto calibro. La techno la fanno loro a cappella mentre recitano, non c’è bisogno degli Underworld.
Al di là di qualche possibile piccola sbavatura, entrano nelle complicatissime e ondivaghe parti in modo intenso, rendendo con la giusta cattiveria il senso delle vite in bilico di Welsh, il senso dell’esistere e del non esistere, che è in ogni loro gesto, quel lasciarsi andare di una generazione che trasformò Edimburgo, fra droga, sesso e violenza, nella capitale europea dell’AIDS. Molti di loro spazzati via.
Come nel romanzo, sopravvivono i furbi e i fortunati. Qui, nell’adattamento teatrale, quasi nemmeno loro.
Il conflitto di questa drammaturgia non è nemmeno con la società, come all’inizio della scrittura quasi pare (con due di loro che si presentano ad un colloquio per non essere assunti e continuare a percepire il sussidio senza dover lavorare). Loro sono fuori dalla società. Sono fuori. Odiano perchè nulla in loro potrà compiersi.
Il conflitto in questa drammaturgia è fra i personaggi e la vita.
Neanche la gravidanza rappresenta un momento sacrale. In nessun modo.
Muoiono bambini, si raccontano aborti, sembra quasi di sentire odore di merda, tampax, sputi e dosi di droga.
Nel trasmettere profondamente il senso disturbante dell’odiosa e odiata emarginazione, così come nel farlo distanziandosi dall’archetipo filmico, Mabellini e i quattro interpreti riescono.
E dovrebbe dare da pensare questo, perchè senza accorgercene stiamo tornando alla deriva di parti della società, di vite disperate e senza speranza, che la parte “ancora sana” della società guarda con disgusto e repulsione.
Non mi sorprenderebbe se questo spettacolo, un must see della stagione, o qualcuno dei suoi terzi (drammaturgia, regia, attori), ottenesse in una qualche forma un riconoscimento per il lavoro fatto.
Se così fosse, sarebbe meritato. Niente da dire.
Lo rivedrei.
E non capita spesso di poterlo dire.
TRAINSPOTTING
di Irvine Welsh
versione di Wajdi Mouawad
traduzione di Emanuele Aldrovandi
uno spettacolo di Sandro Mabellini
con Michele Di Giacomo, Riccardo Festa, Valentina Cardinali, Marco Bellocchio
costumi Chiara Amaltea Ciarelli
drammaturgia scenica Riccardo Festa, Michele Di Giacomo, Marco Bellocchio, Valentina Cardinali
coproduzione Viola Produzioni S.r.l. – Accademia degli Artefatti
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Il video originale di Born Slippy
https://vimeo.com/190984433
Cliccate sul video sotto per la nuova versione e poi cliccate sulla scritta sottolineata Guarda su YouTube. VEVO e WORDPRESS non devono essersi messi d’accordo sui denari dei diritti
….”ammazzate ohoh”