ALESSANDRA PRATESI | Il Teatro India ospita dal 29 maggio al 6 giugno la V edizione del Festival di Teatro under 25, Dominio Pubblico. Abbiamo incontrato Cristian Pagliucchi (romano, classe 1993) e Giacomo Sette (romano, classe 1989), rispettivamente regista e drammaturgo, di Anna e Riccardo, in scena il 31 maggio dopo una prima presentazione nel dicembre 2017 al Teatro Tor di Nona di Roma. Ci hanno aperto le quinte del loro retrobottega e ci hanno raccontato la loro visione di teatro.
Come nasce il progetto di Anna e Riccardo?
CP: Nasce da un mio desiderio di analizzare il rapporto tra Lady Anna e Riccardo III, che nella realtà non è come Shakespeare lo descrive. Quando Giacomo [Sette, il drammaturgo, ndr] mi presenta il testo che gli avevo chiesto, mi appare in tutta la sua essenza cinematografica: Giacomo si era allontanato da Shakespeare, ma il suo testo era talmente vero che non poteva dire di no.
Cosa c’è di Shakespeare in Anna e Riccardo?
GS: Cristian [Pagliucchi, il regista, ndr] mi chiese una riscrittura del Riccardo III di Shakespeare con l’idea di farne un prequel. Voleva raccontare una deformità psichica che sporca al punto da tradursi in deformità fisica. Era un tema troppo grande per affrontarlo adesso. Ho tenuto, quindi, conto di un solo elemento: la deformazione psichica. Mi sono chiesto come si reagisce alla vita che ferisce quando si sceglie la strada dell’odio invece che quella della resilienza, come va di moda oggi.
Li ho portati a Roma, Anna e Riccardo. È la Roma delle periferie che conosco bene, una realtà degradata. Riccardo qui è un ragazzo, non aspira più al trono di una nazione, ma suo obiettivo è vivere di spaccio, vivere di rendita e non fare niente. Non aspira nemmeno a essere il re della criminalità. Anna, invece, è una paziente psichiatrica che vive in una sorta di casa famiglia insieme ad altre ragazze. Perno della storia è il desiderio di Riccardo di avere per sé Anna, simile alla bramosia di Riccardo III verso tutto, verso il potere e verso le donne. Riccardo vuole Anna con sé sempre. Anna, però, si cura e cambia, con una visibile trasformazione in positivo. Anche Riccardo cambia, ma ha un arco di regressione: diventa zoppo, ha bisogno della sedia a rotelle, è rinchiuso in un carcere. Dal punto di vista drammaturgico era Anna il personaggio di maggior interesse. Si passa da un rapporto simbiotico, tipico dell’amore adolescenziale alla Romeo e Giulietta fino alla separazione. Nonostante la differenza tra i personaggi, Anna ha la capacità di andare incontro a Riccardo, di non cancellarlo dalla sua vita ma di mostrargli che c’è un’altra possibilità.
Il finale è aperto, lo preferisco. Lo trovo più adatto alla vita, dove niente è definitivo e tutto nei rapporti è variabile. Non ci sono né il fato né il destino dei Greci, ma la scelta è in mano alle persone. Di Shakespeare mi interessava la scelta, che c’è in tutti i personaggi tragici più interessanti. Non sono cattivi, ci diventano. Da Iago a Riccardo III.
Cosa significa il teatro per te?
CP: Il teatro è una parte della mia anima. Metà del mio cuore l’ho dedicato al teatro. Faccio teatro da quando ho 17 anni come attore nei laboratori teatrali di scuola. Ho iniziato come cantante e musicista. La recitazione è arrivata dopo, ma ero già abituato alla scena: non sentendo più la pressione del pubblico mi sentivo libero e felice sul palco. Non potrei fare a meno del teatro, è una sorta di dipendenza: sento la necessità di stare sul palco o in regia. Teatro significa essere liberi dai pregiudizi e dare la libertà di esprimersi. Significa verità e libertà. Anima e libertà.
Come ti sei avvicinato alla scrittura teatrale?
GS: Ho sempre amato scrivere. Colpa di un papà scrittore di narrativa che mi ha trasmesso la passione. Ho sempre scritto poesie tremende insomma, come tutti gli adolescenti disperati, finché non ho incontrato il teatro, prima come attore, poi come tecnico. Mentre frequentavo l’università, con Brecht e Beaumarchais mi sono innamorato della lettura dei testi teatrali.
All’università ho studiato “Letteratura Musica e Spettacolo” alla Sapienza di Roma, ma all’inizio pensavo di iscrivermi in Medicina. Mi affascina l’anatomia. Anche Cechov era un medico. I medici che fanno letteratura scrivono in modo mostruoso: i qualche modo, evidentemente, il rapporto con realtà la organica e psicologica porta a conoscere l’uomo in profondità.
Leggere un testo teatrale non è come leggere un romanzo. Implica una grande capacità di immaginazione: è una chiave per vedere i mondi con la sola parola. Tutto è affidato alla parola, al monologo. Mi piace sentire parlare e vedere come il linguaggio cambia mentre parli. La lingua non è mai davvero fissata in un sistema. Nella realtà la lingua la adattiamo come vogliamo. E questa duttilità mi affascina molto. Scrivendo per il teatro posso portare la realtà della lingua nella finzione della scena.
Che genere di lavoro compi per la messa in scena?
CP: Lavoro sulla psicologia del personaggio. Anna e Riccardo, ad esempio, lo avevamo già presentato a dicembre 2017 al Tor di Nona di Roma. Lo spettacolo non è stato cambiato per Dominio Pubblico, piuttosto approfondito e migliorato. Ci vogliono ben più di una manciata di repliche per far vivere uno spettacolo: bisogna sperimentare e cercare. Il lavoro su un personaggio non finisce mai.
Essere regista ma con una formazione da attore è decisamente un vantaggio: da regista capisco i personaggi e gli attori in scena mettendomi nei loro panni. Posso camminare insieme agli attori, so che tipo di risultato voglio ottenere e come ottenerlo. Da regista mi metto sempre al livello degli attori e viaggio con loro.
Il mio è un teatro molto più di parola che fisico, essendo io un attore che predilige la parola. La parola naturalistica e realistica è meravigliosa. Con me gli attori assumono la voce della vita reale. È una recitazione cinematografica perché la recitazione ‘teatrosa’ deve essere lasciata ai testi che la richiedono, un Goldoni ad esempio. Con il Novecento di Beckett e di Brecht i personaggi sono veri. Sarah Kane è la mia scrittrice preferita; è l’essenza nuda e cruda dell’uomo. Permette di vedere uno spettacolo e potersi riconoscere. Uno spettacolo deve aprire un sentiero nella mente e nel cuore delle persone; deve lasciare un segno, altrimenti è solo intrattenimento.
Qual è la tua opinione sul teatro contemporaneo oggi?
CP: Mi piace la direzione del teatro contemporaneo perché non fa sentire il dislivello tra pubblico e attore. Avvicina il pubblico e lo rende omogeneo, non solo una classe sociale o generazionale: il linguaggio contemporaneo travalica età e società, lo capiscono tutti. Tutti hanno vissuto quelle tematiche. L’obiettivo è sentirsi dire “non sembra di stare a teatro”, far sentire la gente all’interno di quello che sta accadendo, guardarsi dentro.
Da maestri come Filippo Gili ho imparato che la recitazione è semplice. La fanno difficile, ma è molto semplice. E più semplice la pensi più sarà vera, reale, naturale. È lì che si emoziona il pubblico: quando ci metti te stesso, lasci un segno nel pubblico.