MARTINA VULLO | L’anno scorso era l’Argentina. Prima ancora la Persia, i paesi scandinavi, il Brasile, la Palestina e la Grecia e, fra il 2005 e il 2009, sono stati Cina, India, Turchia, Romania e Berlino.
Parliamo dei protagonisti dell’annuale festival di reportage “Cuore di”, organizzato a Bologna dai Teatri di Vita, nell’ambito di Bologna Estate 2018, che attraverso lettere, mostre, conferenze, teatro, danza, musica, gastronomia e contributi cinematografici, si focalizza ogni anno su di un paese straniero, per “creare ponti” e superare stereotipi culturali.
Quest’anno, protagonista del Festival insignito del riconoscimento internazionale Effe Gabel 2017/2018 per la carica innovativa, è l’Inghilterra che porta con sé un’inevitabile e più ampia riflessione sulle ragioni e conseguenze dell’ormai prossima separazione dall’UE.
Il tema dell’impatto della Brexit sull’individuo è palesemente riscontrabile nei legami evanescenti tra i corpi delle coppie incorniciate nel foyer dei Teatri di Vita, in occasione della mostra fotografica Separation, ad opera della londinese Laura Pannack, così come anche nei brexit shorts: i nove cortometraggi proiettati in loop nella stessa sala, in cui registi differenti si focalizzano sull’impatto di questa mossa politica nel mondo di persone diverse (un ragazzo scozzese, una giovane madre, uno studente che si domanda le ragioni dell’esito del referendum, un contadino gallese preoccupato dell’aumento del prezzo del latte e così via). E ancora, più o meno esplicitamente, il tema ritorna nelle Lettere dal fronte esterno – pratica ormai consolidata per il Festival, con cui due personalità del paese protagonista, dialogano con un corrispettivo del nostro, per mezzo di una lettera, letta pubblicamente da quest’ultimo – con la testimonianza di John Blundell, Lord Mayor di Coventry, indirizzata al sindaco bolognese Virginio Merola e ancora quella di Poonam Joshi, presidente dell’associazione Indian Lady in UK, letta da Victoria Ozioma Soba dell’associazione MondoDonna.
Alla libertà umana limitata dal potere sembra riferirsi pure Run: performance di danza in due atti ad opera della 2Faced Dance Company di Hereford, presente al Festival in prima nazionale.
Nella prima parte, il ritmo della musica strumentale, l’essenzialità della scenografia scarna, la temperatura fredda delle luci, l’atmosfera rarefatta e la straordinaria velocità e leggerezza dei quattro interpreti coi loro larghi vestiti in movimento, restituiscono allo spettatore un profondo senso di libertà e quasi di vertigine, prontamente sottratti dal limite spaziale imposto dagli elementi scenografici delle catene pendenti, collocate sui due lati dello spazio scenico e dai tre cubi luminosi calati dal soffitto, sempre più bassi ed opprimenti a limitare il movimento dei performer. Un’oppressione che prende ulteriormente piede nel corso del secondo atto dello spettacolo – a cui si aggiunge anche un quinto ballerino – che perde in essenzialità con l’uso ora di luci colorate, ora di oggetti scenici, di capi d’abbigliamento manipolati in scena. Il tutto in coincidenza con un momento più pantomimico a rivelare una dialettica di incontro-scontro fra gruppo e individuo in cui quest’ultimo, da solo nella scena finale, con delle enormi ed ingombranti ali che è incapace di dispiegare, non sembra certo avere la meglio. Non manca all’interno di questo Cuore d’Inghilterra, un contributo spettacolare nostrano, ad opera del regista Andrea Adriatico, che si rifà per l’occasione al genere della Stand-up comedy e che, riprendendo un testo della britannica Claire Dowie, tradotto appositamente da Stefano Casi, mette in scena con La Maschia una dinamica di confronto-scontro con la società, di tipo differente e in linea con la propria poetica fortemente impregnata di una riflessione LGBT (si pensi a Delirio di una Trans populista ispirato a L’Addio. La giornata di delirio di un leader populista di Elfriede Jelinek, o a L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi di Copi, solo per citare qualche titolo di una teatrografia in cui i temi del genere e dell’omosessualità, più o meno centrali, sono molto presenti).
Qui, la protagonista Helen, interpretata da una carismatica Olga Durano, un po’ come accade al Gregor Samsa delle Metamorfosi di Kafka a cui il testo fa palesemente riferimento, si sveglia e si scopre diversa. È in atto un cambiamento fisico progressivo che, a differenza dell’insetto dell’autore della Lettera al padre, non la costringe certo all’invisibilità o all’emarginazione: “Io non sono invisibile, perché non sono uno scarafaggio – affermerà l’attrice nella battuta conclusiva – Io sono un uomo”.
Il mondo esterno, rappresentato per lo più dalle figure dell’amica (Patrizia Bernardi) e della donna delle pulizie (Alexandra Florentina Florea), dapprima temuto e poi affrontato coraggiosamente, sembra voler prima “rimetterla a posto”, per poi, in qualche modo, accettarla e persino reclamarla in un improbabile momento finale nel quale tre eleganti uomini adusi a bere the, rivelano alla maschia di essere la prescelta per redimere il mondo: anche per un compito del genere sembra esserci un gender adatto.
Il racconto è leggero, la scenografia semplice ed efficace, consistendo in una piattaforma girevole da cui emergono di volta in volta lati diversi della casetta della protagonista.
Come nella consueta prassi della Stand-up comedy, quest’ultima abbatte la quarta parete, rivolgendosi continuamente al pubblico, quasi per confidarsi nel descrivere il proprio processo di trasformazione. I momenti di nudità dell’attrice e i gesti del quotidiano che riproduce, rafforzano il senso di vicinanza del personaggio che si mostra in tutta la sua intimità.
Contribuiscono al tono leggero della narrazione i tratti stereotipati e le espressioni caricaturali dei personaggi e attraverso questo mondo che muove fra l’assurdo e il farsesco si fa ironia sui pregiudizi di genere.
Stride forse la collocazione esterna dello spettacolo, fra lo sfondo visivo degli alberi del parco dei Pini, gli insetti attratti dai fari frontali e il sottofondo naturale di uccelli e cavallette. Forse un po’ poetico per un testo bizzarro, ritmato, spumeggiante.
Prezioso in quest’ultimo spettacolo come nelle altre iniziative di Cuore d’Inghilterra il continuo gioco di intertestualità e rimandi a culture altre. Ossigeno puro la ricerca di universalità e avvicinamento che costituisce il proprium delle proposte del Festival.
È rincuorante, in un periodo storico in cui si invoca tristemente alla chiusura di porti, osservare come l’arte continui a edificare ponti.
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