“E le generazioni si guardano negli occhi con freddezza.
Se riempite una nave di esseri umani,
tanti da farla scoppiare,
ci sarà una tale solitudine che geleranno tutti”

CHIARA PALUMBO |“L’artista è tenuto a farsi carico della mutazione sociale, non vive sotto una campana di vetro, può, deve e vuole, sì, vuole essere responsabile, assumersi la responsabilità del suo tempo, contraddizioni incluse”.
Una presa di posizione netta, quella che Sonia Antinori assume nel suo progetto Nella giungla delle città, l’irruzione del reale. Una prospettiva che deve essere stata sovrapponibile a quella del MIBACT, quando due anni fa ha ritenuto di aprire un bando nazionale dal titolo MigrArti – la cultura unisce, di cui forse proprio per questo il progetto di Antinori e della sua compagnia, MALTE, è risultata tra i progetti vincitori, unico nelle Marche. Una chiamata alle arti, scrive il Ministero  nell’ottica dello sviluppo della reciproca conoscenza, del dialogo interculturale e dell’inclusione sociale”.

Un tema, quello del rapporto fra le culture, che poggia più che mai oggi su un terreno tellurico, complesso a rischio di letture sempre più semplicistiche e sempre più inserite in una dialettica di scontro e opposizione. Che si nutre, sempre più, della ricerca non dell’incontro, ma della separazione, fra nebulosi “noi e loro” – ma chi siamo, noi? – legittimità e illegittimità.

Non un teatro d’avanguardia o d’ispirazione politica nel quale invitare chi è interessato ad approfondire, quindi, ma al contrario l’irruzione – caotica, debordante, colorata, persino violenta – di quello che qualcuno identifica con l’archetipo dell’ uomo nero dentro – dice Antinori – “i salotti buoni delle nostre città”.
Non per farsi vedere o “farsi accettare”; proprio questo irrompere rifiuta senza bisogno di dirlo il concetto stesso di tolleranza, e sceglie di mettersi davanti a un pubblico lasciandolo libero di arrivare per caso, di andarsene, chiamato ad agire e re-agire. Ma soprattutto ad essere provocato dalla prospettiva. Si vuole evitare il sentimentalismo facile venato di pietismo post colonialista. All’opposto della narrazione dell’incontro, Sonia Antinori sceglie di parlare di migrazione a partire dalla violenza, dallo scontro anche immotivato. “Non arrovellatevi la testa sui motivi della lotta”.

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ph, Giorgio Pergolini

E così, per comprendere l’oggi, il contatto decennale con la drammaturgia tedesca induce Antinori a recuperare la lezione del Bertolt Brecht giovanile che offre la traccia testuale e il secondo emistichio del titolo, Nella giungla delle città. La spirale distruttiva che contrappone il commerciante malese Shlink e il commesso George Garga nella Chicago del 1912, violenta e perduta, serve quindi a raccontare quelle che gli attori migranti identificano che le Chicago di oggi: Lagos, Abijan, Casamance, Kidal, la base del jihadismo nel deserto maliano. Nomi che a chi sta su questa sponda del mare non dicono nulla, ma a chi le lascia raccontano, come Chicago, di dove “la vita è una giungla, una lotta”, dove si muore e nessuno si accorge, dove si nascondono i figli in casa per proteggerli dal traffico di organi. Un inferno dal quale scappare, per incontrare però non un Eden, ma una nuova giungla, quella del nostro quotidiano. Non un luogo di illusione – o non soltanto – ma un luogo nel quale iniziare una nuova lotta – “guardare la vita nel bianco degli occhi” – sapendo di confrontarsi con la marginalità, e accogliendone le conseguenze, anche quelle socialmente problematiche. Non ineluttabili, certo, ma consequenziali: se la mia condizione è socialmente inaccettabile, mi lascio corrompere.“Io ho una famiglia e tu hai una famiglia, tutti abbiamo una famiglia e se io non posso lavorare, se non ho soldi, se non posso nutrire la mia famiglia, allora io spaccio la droga”. Fuori di moralismi teorici, è con la guerra del reale che si confronta il teatro, da Brecht a oggi.

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ph. Lorenzo Pavani

Una complessità, quella dello sguardo, che coinvolge ogni aspetto di un progetto indubbiamente articolato. Tre strutture e tre diverse immagini: il castello, la piazza e la porta, per altrettante associazioni che riuniscono un corpo di circa cinquanta ragazzi e ragazze, tutti per la prima volta alle prese anche col teatro, alcuni persino con la lingua italiana. Una enorme compagnia, “Jungle People”, in eterna fluttuazione, con cui il ristretto e coraggioso gruppo di lavoro (oltre alla stessa Antinori, l’attore Giacomo Lilliù che, come pure Fausto Caroli si è occupato anche del traning precedente al lavoro sul testo, la coreografa Stefania Zepponi, le attrici Carla Manzon e Desirèe Domenici e la mediatrice culturale Stefania Scuppa) hanno impostato un lavoro lungo mesi. Anche gli attori sono sfidati: la grande mole di impegno condivisa li ha condotti, in alcuni casi, dall’analfabetismo nella propria lingua fino a recitare un’attraversamento del testo brechtiano. Anche in questo caso Antinori fa una scelta di complessità e di sfida, affidando a debuttanti testi – che firma a partire dal drammaturgo tedesco – dalla scrittura elegante, che non rinuncia ai preziosismi e al fascino delle immagini che se a qualcuno possono sembrare anacronistiche, manifestano invece quella stessa volontà che sottende a tutta l’opera: rifuggire alla banalizzazione, alla semplificazione esasperata. Un’atto di fiducia della drammaturga verso i suoi attori, che la ripagano maneggiando soprattutto i passaggi più complessi con sorprendente dimestichezza.

Quello a cui sono chiamati è un percorso verso il testo partendo dal contesto, spiega la regista, partendo dal simbolo del Castello; è la rocca roveresca di Senigallia, in cui suona l’eco dell’omonimo romanzo di Kafka. In un originale allestimento site-specific, in cui un’architettura sonora di musica e narrazione accompagna, come un’audioguida, lo spettatore in una visita in bilico tra racconto di vita e valorizzazione del patrimonio culturale regionale. La rocca, illuminata dalle luci espressive di Francesco Dell’Elba, che colorano i muri secolari, si trasforma così nel kafkiano luogo di un potere senza volto, e lo spettatore è catapultato in un’atmosfera liminare tra il sogno e l’incubo, dove i fantasmi del genitori appaiono a congedare i figli che partono. Ed è evidente che questa voce che riempie le orecchie si rivolge a un ospite ora blandito ora respinto, (che pure, e qui Antinori ricalca l’autore ceco “se sei qui, è verosimile che il Castello abbia bisogno di te”) che lascia ciò che conosceva approdare in un luogo dove sperimenta sulla propria pelle l’inevitabilità e l’impotenza di fronte “alla subordinazione”, scrive ancora Kafka.Un ospite che, aggiunge “si sperava non rimanesse a lungo e non si è fatto nulla per indurre a restare”. Eppure, di nuovo, chi osserva non ha un solo ruolo. Noi, se di un noi si può parlare, “legittimi” abitanti di un luogo da difendere coi muri, siamo anche gli stessi chiamati a confrontarsi con le ombre mute che spuntano dagli anfratti del castello, che a loro volta hanno insieme l’impalpabilità dei fantasmi e la carnalità dei corpi viventi. In un allestimento post drammatico che lascia lo spazio teatrale e sceglie la proiezione per imporre ai nostri occhi, insieme alle orecchie, il pastiche di lingue che racconta l’orrore delle torture di chi attraversa il deserto e poi il mare per raggiungere le sponde del nostro castello.

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ph. Giorgio Pergolini

Ma le voci dalla Libia sono difficili da ascoltare, e il castello da protezione improvvisamente si fa reclusione, e anche a chi osserva manca il fiato. Un obbiettivo raggiunto, perchè, come scrive in Il teatro postdrammatico Hans-Thies Lehmann “lo spettatore è lì per testimoniare il dolore di cui parlano gli attori” e se l’empatia si fa condivisione, in qualche misura essa si amplifica. Intanto il racconto continua, accanto all’orecchio.

Un giorno un arabo viene a prendere me e porta in una prigione in una casa vuota. Se tu paghi ti libera, sennò non ti libera. Io dico: dammi il telefono, io chiama signore amico mio per aiutare me e lui dice: il faut pas lui tuer. Lui prende soldi, 1000 dinar e poi viene e mi libera. Io tre volte in prigione, la prima non tanto tempo perché il signore amico mi aiuta, la seconda 2 settimane, la troisieme fois trois moins dans la prision e lì c’è persone morte perché hanno cercato di scappare. Mi dicono devi chiamare per farti inviare i soldi e io dico mio padre la bas non ha niente. Allora l’arabo ha cominciato a picchiare, m’a enleve la chemise, les pantalons, ha portato un filo con la corrente e mi ha picchiato tanto tanto tanto. Poi mi ha liberato. Vai. Ma io non potevo camminare”

Ed è una discesa nell’abisso, quella a cui le figure silenziose danno corpo, in cui si confondono i ruoli di vittima e carnefice, perchè “il treno sta al barcone come la Puglia al Burkina Faso”. Eppure esiste uno spazio di presa di fiato, l’incontro, il convivio, che nelle sale del castello prende la forma di un bicchiere di vino, lo stesso che i migranti contribuiscono a coltivare, e che spinge a guardarsi negli occhi. A cercare nello sguardo di chi ci sta di fronte una scintilla di somiglianza. Che fa aprire in un sorriso quando qualcuno, spontaneamente, si alza per scambiare il bicchiere con uno sconosciuto. Tanto che, se si allunga l’orecchio fuori, o dentro alla parte di noi che preferisce proteggersi, a questa verità non si può, non si vuole credere, perchè certe cose succedono solo nei film, e la voce che accompagna la visita stavolta porta un chiacchiericcio incredulo che potrebbe essere il nostro, al tavolo di un bar. Ma queste vite coi film non hanno niente a che spartire. E non c’è lieto fine, salvarsi dalla corruzione è per pochissimi.Questo è lo schema, che torna in Brecht: all’abisso della lotta segue la speranza del convivio, il rifiuto delle conseguenze del proprio agire, e infine la perdita, la corruzione, la sconfitta.

CASTELLO 2 PERGOLINI
ph. Giorgio Pergolini

Lo stesso che si ritrova nel secondo spettacolo, in cui il testo e le coreografie di Zepponi si dividono lo spazio e si amalgamano e le luci disegnano strade in una piazza che è fatta mercato, Shlink è un fotografo, le idee si comprano come le cianfrusaglie di un Arlecchino trasformato in vu’ cumprà, chiamato a sorprendere le signore eleganti in una piazza estiva, tra mucchi di abiti venduti a pochi spiccioli. E ancora, non si sa cosa è passato e cosa è presente, qual è il confine tra noi e loro, in un mondo dove le donne, racconta Brecht, si mettono all’asta, come MALTE racconta riempiendo la piazza di un pavoneggiamento osservabile da ogni lato fatto di vestiti eleganti e danze rituali, quasi tribali, perchè è il più forte a vincere. Ed è nel silenzio assordante di questa solitudine, mentre i sostegni delle luci evocano ua crocifissione dell’umanità, e un mucchio di scarpe camminate racconta di corpi che hanno avuto un peso, come le caramelle di Felix Gonzales Torres, emergono le personali peculiarità. Così un giovane alto e ben piantato è credibilmente Mae, la madre di George Garga, nata in Biafra, un altro è John, padre che è stato soldato e ormai è rassegnato ad essere abbandonato, una giovane donna è Marie, la sorella, che sa che il suo corpo è il solo strumento di sopravvivenza. E nel confine tra narrazione e vissuti quantomeno verosimili in questi volti si specchia, la poesia, dolente, vivida e marginale dei Ragazzi di vita di PasoliniUna mano di colore ch’era tutta l’allegria e la misera delle notti d’estate del presente e del passato”.

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ph. Lorenzo Pavani

 

Ed infine, inevitabilmente, la porta. Il passaggio, alla Mole vanvitelliana di Ancona dove il gioco scenico prende forma compiuta nel primo spettacolo sul palco del trittico, con gli ambienti disegnati dai video di Matteo Lorenzini e gli abiti storicamente coerenti di Stefania Cempini. Davanti alle settecento persone di Ancona (che si aggiungono ai quattrocento di Jesi e ai cento di Senigallia) si compie il percorso di “integrazione” verso la lingua di arrivo, “la base della condivisone e della crescita culturale”, commenta Antinori. E in un lingua finalmente raggiunta gli attori sono sfidati ad affrontare canovacci costantemente in progress che bordeggiano la trama originale, approdando ad una versione in cui  Shlink è “il bianco”, anziché malese. Il personaggio come la lingua, “si forma e muta in base ai rapporti reali” e che vede riformulate le stesse parole in base alle necessità anche tra la seconda e la terza messa in scena. Il testo così torna ad essere il racconto di un commerciante di legname che strizza l’occhio a Faust e al Voland de Il maestro e Margherita, che sa tutto del proprio interlocutore e può indurlo alla rovina senza muovere un muscolo, lasciando soltanto che sia lui a proiettasi verso la propria rovina. Da un lato, il fatto che Shlink sia bianco lascia pensare alla disumanità tronfia del colonialismo, del ricco che intende impadronirsi di John Garga, comprandone l’idea, e a cui egli oppone, nonostante la miseria, un rifiuto a tutela della propria dignità, dall’altro è invece molto più vicina a Goethe e a Bulgakov la risposta di Shlink, che quando il giovane, spinto dalla necessità e dalla curiosità accetta la sua sfida, gli cede tutto ciò che possiede, salvo poi inserirsi nella vita del proprio avversario, sostituirglisi, sostenendo la sua famiglia con il proprio lavoro: il più estremo dei furti, quello della propria identità creata nei legami. E proprio quando Garga, arricchito, crede di aver raggiunto la felicità, tutto crolla, perchè essa era stata costruita su una menzogna, su una truffa di cui Garga stesso si è reso, autonomamente, responsabile nel momento in cui aveva abbastanza potere per farlo.

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ph. Lorenzo Pavani

 


Così, il grande merito di questo lavoro è aver scelto di affrontare un tema fondativo offrendo domande e non risposte, verità e non retorica. Opzioni, strade tra cui scegliere; scrive ancora Lehman
n, “una rappresentazione complessa e approfondita di conflitti laceranti”.
Ma bisogna lasciare
i panni dell’attore, nel rito laico del teatro “capace di farci condividere attimi irreversibili, unici, fatti di soffio, carne e sudore” e ritrovare quelli dei ragazzi, Ibrahim, Basoumana, Kassoum, Yoro, Moussa, Mehedi, Justice, per trovare una sintesi. Nella quale si può, però, intravvedere una forma di speranza. Perché “se uno: hai passato il mare, e due: non sei stato maledetto, e tre: sei giovane, non puoi non avere speranza. Perchè checchè ne dica il mondo di ieri, il mondo di domani è tuo”.

 

Nella giungla delle città. L’irruzione del reale / 1. Il castello
Testo e regia di Sonia Antinori

Con la compagnia Jungle People di Senigallia
Alieu Kanyi | Gambia – Awa Ndiaye | Senegal – Camara Abdourahamane | Guinea -Ernest Ojo | Nigeria – Francis Amiolemen | Nigeria – Immaculata Edim | Nigeria – Justice – Ogun Osobase | Nigeria – Onyhaechi | Nigeria – Sonia Ngonop |Camerun – Vera Lucia da Silva | Brasile – Lucretia Tabatso Mokoena | Sud Africa

e le voci:
Bernard Darga | Burkina Faso – Christiane Oumy Sene | Senegal – Giacomo Lilliù | Italia – Moussa Coulibaly | Mali – Muhammad Shahbaz | Pakistan – Nimi Soumana | Costa D’Avorio – Sonia Antinori | Italia – Thomas Osasumwen | Nigeria – Vera Lucia Da Silva | Brasile – Zeli Seri Nicolas | Costa D’Avorio

 

Nella giungla delle città. L’irruzione del reale / 2. La piazza 
Testo e regia di Sonia Antinori

Con il gruppo Jungle People Jesi:
Abdoulaye Sidibé | Costa D’Avorio – Bernard Darga | Burkina Faso – Bourama Doumbia | Mali – Chinedum Paul Samuel | Nigeria – Christian Oyeka | Nigeria – Christiane Oumy Sene | Senegal – Darwin Arias Asprilla | Colombia -Destiny Roland | Nigeria – Diadie Traore | Mali – Eric Philip | Nigeria – Femi Dupe | Nigeria – Ibrahim Kromah | Liberia -Ibrahima Sissoko | Mali – Ike Sunday Primus | Nigeria – Kassoum Zombra | Costa D’Avorio – Lucky Joseph | Nigeria – Lucretia Tabatso Mokoena | Sud Africa – Mamadi Kourouma | Guinea – Mohamed Arif Munshi | Bangladesh –  Mohamed Fofana | Guinea – Mohamed Kader Soumahoro | Costa D’Avorio – Muhammad Shahbaz | Pakistan -Ngouace Conde | Guinea – Nicola Loua | Guinea – Nimi Soumana | Costa D’Avorio Patrick Okoedion | Nigeria – Thomas Osasumwen | Nigeria – Vera Lucia Da Silva | Brasile – Zeli Seri Nicolas | Costa D’Avorio

Sarto di scena: Amadou Cissè

Nella giungla delle città. L’irruzione del reale / 3. La porta
Testo e regia di Sonia Antinori

con i partecipanti del Laboratorio Jungle People Ancona:
Abdoulaye Bah | Senegal – Abdoulaye Moussa Traore | Mali – Abdoulaye Sissoko | Mali- Aboubacar Sidibe | Costa d’Avorio – Adama Traore | Costa d’Avorio – Bazumane Sidibe | Costa d’Avorio – Daniel Edomwonyi | Nigeria – Ezra Orumeka | Nigeria – Junior Joe Saa | Liberia – Mamadou Sow | Senegal – Md Mehedi Hasan | Bangladesh – Mohamed Doukoure | Costa d’Avorio – Moussa Cissoko | Costa d’Avorio – Saido Balde | Guinea Bissau – Sonia Ngonop | Camerun – Yaya Diao | Senegal – Yoro Coulibaly | Mali

con Desirée Domenici e Giacomo Lilliù, e con la partecipazione straordinaria di Carla Manzon

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training attori Giacomo Lilliù e Fausto Caroli – mediazione interculturale e linguistica Stefania Scuppa – coreografie e movimenti scenici Stefania Zepponi – luci e spazio scenico Francesco Dell’Elba – musica e suono Slate – costumi Stefania Cempini