LAURA BEVIONE | Commenti informali e recensioni “istituzionali”, dopo il debutto nell’edizione 2017 del Napoli Teatro Festival, assai entusiasti: uno spettacolo da non perdere, forse il migliore della stagione teatrale passata. Le aspettative, del pubblico così come quelle del critico – probabilmente, nel secondo caso, in misura pure maggiore – altissime.
Le aspettative, si sa, inficiano inevitabilmente la fruizione dello spettacolo e se il critico, benché fiducioso, acuisce la propria severa capacità di analisi, il pubblico tende genericamente a ricercare l’emozione a ogni costo. Uno spettacolo “fenomeno” che, per essere tale, non può che risultare “tecnicamente” perfetto e regalare piacere estetico ed emozionale. Il critico si irrigidisce mentre il pubblico si “scioglie”…
Ė ovvio che stiamo generalizzando, esistono critici mainstream e spettatori severissimi, ma il problema sussiste e certo non aiuta né una fruizione genuina e “onesta” degli spettacoli né una critica che sappia essere “soggettivamente” obiettiva.
Questa lunga premessa per riflettere su di uno di questi spettacoli “fenomeno”, appunto The Great Tamer, creato dal greco Dimitris Papaioannou, non propriamente un coreografo né soltanto un regista, quanto un orchestratore, di corpi, di immagini e di suoni.
Una recensione approfondita è già comparsa su PAC in occasione delle date napoletane dello scorso anno e dunque, rimandando a essa, ci limitiamo a evidenziare il costante richiamo a opere d’arte e artisti figurativi – dalla Venere di Milo all’Origine del mondo di Courbet; dal conterraneo Kounellis a Rembrandt – così come a pellicole note, in primo luogo 2001 Odissea dello spazio, da cui Papaioannou trae pure la colonna sonora, Sul bel danubio blu di Johann Strauss, benché reinterpretato da Stephanos Droussiotis. Rimandi che si traducono sulla scena – una piattaforma rettangolare e inclinata costruita da pannelli sconnessi di un colore grigio che ne suggerisce natura vulcanica ovvero extraterrestre – in immagini inventive e certo pervase da un certo gusto per lo sberleffo, ironico e arguto, e per la sdrammatizzazione così da amplificare, nondimeno, la fragilità della condizione umana.
Un gusto che, tuttavia, è ben accorto a non trascendere mai una certa misura, così da non provocare né tantomeno turbare il pubblico: l’artista greco non mira a suscitare dubbi ma a compiacere, offrendo bellezza e professionalità. Doni su cui non esiste nulla da eccepire ma il critico – così come gli spettatori più scafati – non si blandiscono così facilmente ma pretendono una struttura drammaturgica robusta, una “necessità” che faccia sì che lo spettacolo depositi nelle loro menti e nei loro cuori qualcosa di una sostanza più solida e duratura dell’evanescente fascino di una visione scenica.
Papaioannou afferma di rifarsi al mito di Persefone – incarnata in scena da una performer che a tratti fuoriesce da una delle tante botole che punteggiano la struttura scenografica – per riflettere sul “mistero” dell’uomo e sull’interazione fra corpo e mente: un punto di partenza che, nondimeno, non viene sviluppato né approfondito bensì utilizzato quale pretesto per sipari di perfetta fattura, esemplari dell’ammirevole capacità compositiva dell’artista così come della sua creativa arguzia nello smontare e rimontare in maniera originale visioni pre-esistenti – pittoriche ovvero cinematografiche.
L’occhio è sicuramente affascinato da tanta bellezza – così come dalla flessuosità e dalla forza dei performer, impegnati a tratti in cadute ardite e costretti a rapidi cambi – ma da essa non si articola un discorso realmente significativo. Ma, forse, a Papaioannou – legittimamente – interessa proprio blandire l’occhio del pubblico, regalargli un’ora e mezza di bellezza senza troppi pensieri e, pure, la piacevole sensazione di essere stati parte di un’esperienza importante, uno spettacolo-evento – ecco allora gli spettatori che, al termine della replica torinese di venerdì scorso, cercano di appropriarsi di qualche cimelio/reliquia abbandonando la sala…
Che uno spettacolo teatrale possa generare tanto feticistico entusiasmo può sicuramente far piacere ma siamo certi che quegli stessi spettatori andranno a vedere lavori di artisti, non osiamo dire emergenti, ma quanto meno un po’ meno noti e alla moda? E, soprattutto, vogliamo davvero che l’esperienza di una serata a teatro si traduca in una celebrazione di collettiva autosuggestione oppure preferiremmo che fosse finalmente rivalutata la vera magia dello spettacolo dal vivo, ovvero la copresenza – unica e irripetibile – di quel performer e di quello spettatore in quell’unica e non replicabile sera?
Perché non ricordare che non esistono spettacoli-fenomeno, ma che ogni evento performativo, se realizzato con onestà e sostenuto da sincera necessità, può essere un vero “fenomeno” e, magari, aiutarci a guardare alla nostra vita da un altro punto di vista?
Fonderie Limone, Moncalieri (Torino), 21 settembre 2018
THE GREAT TAMER
ideazione, concezione visiva e direzione Dimitris Papaioannou
scene e direzione artistica in collaborazione con Tina Tzoka
collaborazione artistica per i costumi Aggelos Mendis
disegno luci in collaborazione con Evina Vassilakopoulou
collaboratore artistico per il suono Giwrgos Poulios
ideazione e gestione del suono Kostas Michopoulos
adattamento musicale Stephanos Droussiotis
sculture create da Nectarios Dionysatos
interpreti Pavlina Andriopoulou, Costas Chrysafidis, Ioannis Michos, Dimitris Kitsos, Ioanna Paraskevopoulou, Evangelia Randou, Drossos Skotis, Christos Strinopoulos, Yorgos Tsiantoulas, Alex Vangelis
produzione Onassis Cultural Centre, coproduzione con Culturescapes Greece 2017, Danses Hus Sweden, EdM Productions, Festival d’Avignon, Fondazione Campania dei Festival-Napoli Teatro Festival Italia, Les Théâtres de la Ville de Luxemburg, National Performing Arts Center-National Theatre & Concert Hall/NPAC-NTCH (Taiwan), Seoul Performing Arts Festival/SPAF, Théâtre de la Ville-Paris/La Villette