ELENA SCOLARI | Qui Cagliari. E pare luglio! In questo autunno decisamente estivo si passeggia volentieri tra le vie della città, dal porto alla Marina, ai quartieri della città vecchia, maniche corte, profumo di cozze, cielo blu e tante barche, negli scorci tra i vicoli spuntano traghetti con i personaggi dei Looney Tunes. Contrasti della modernità.
In queste giornate Cagliari è animata anche dai numerosi appuntamenti di Love Sharing, il festival organizzato dal gruppo Theandric, dedicato al teatro e alla cultura nonviolenta. Tra le iniziative ci sono anche laboratori, in un caffè all’aperto abbiamo incontrato le due artiste Catia Gatelli e Karina Villavicencio, Catia è di Forlì, è attrice e proviene dall’esperienza di Masque Teatro. Karina è argentina, artista performativa, da sempre lavora sulla partecipazione dello spettatore, ha vissuto in Francia e organizza un festival sulle arti plastiche a Cordoba.
Entrambe vivono ora a Berlino, si sono incontrate in un atelier e hanno cominciato a lavorare insieme su un progetto laboratoriale incentrato sul concetto di egemonia gramsciana: Microegemonie del corpo.
Ecco come Catia e Karina ci hanno raccontato cosa faranno con i partecipanti al workshop.
Ci potete dire, in sintesi, qual è il concetto di “egemonia” cui vi richiamate in questo lavoro?
CG: In due parole con il termine “egemonia” Gramsci teorizzava una supremazia culturale esercitata da classi che impongono con la persuasione, tramite un lavoro quotidiano di costruzione del consenso, opinioni che influenzano altri gruppi fino a creare adesione a un determinato progetto politico di società, voluto dalla collettività.
E come legate questa idea di partenza a ciò che farete con i corsisti?
CG: Noi pensiamo che l’egemonia odierna sia l’insieme di regole e convenzioni che tutti noi rispettiamo quotidianamente, però pensiamo anche che si può essere più o meno aderenti a questo meccanismo, accettiamo le regole ma accettiamo anche l’entropia che prevede la presenza dell’outsider, di chi scardina o rovescia queste stesse regole.
KVV: Sì perché possiamo anche essere noi a stabilire le regole e a controllarle, da oggetto che sente alcune circostanze come imposte o addirittura con soprusi posso diventare soggetto attivo nel sistema. Le situazioni e le prospettive cambiano, così come i ruoli dei singoli.
Da cosa partirete durante il laboratorio?
CG: partiremo dalla lettura di una delle Fiabe Italiane di Italo Calvino: Testa di bufala. In questa fiaba si affrontano i concetti di gratitudine e il senso della maternità, tramite l’invenzione letteraria si parla di riappropriazione positiva del sé attraversando la negatività di una situazione che – come in tutte le favole – si supererà. Noi vogliamo provare a indicare come volgere il negativo in positivo.
Più concretamente cosa chiederete di fare, e per ottenere cosa?
KVV: divideremo i partecipanti in due gruppi e daremo loro delle consegne, il risultato dipenderà dalle reazioni di ognuno perché partiremo dalla loro esperienza biografica, naturalmente circostanziandola dati i tempi di lavoro. Lavoreremo sul fisico, sul corpo e chiederemo di produrre una piccola coreografia da un gesto, senza usare la parola. Vogliamo provare a far passare i concetti attraverso il corpo. Ogni gruppo ha una sua dinamica quindi molto prende forma a seconda delle persone presenti.
Si tratterà quindi di vivere un’esperienza attraverso il corpo partendo da un’idea che nasce invece con le parole.
CG: sì, pensiamo che anche un piccolo gesto possa avere un valore catartico, “butta fuori” qualcosa. L’atto creativo non appartiene solo all’artista, ognuno di noi può produrre un gesto artistico perché tutti hanno una propria creatività. Bisogna essere in ascolto di se stessi per conquistare autonomia, per guadagnare consapevolezza. La società è fatta di singolarità, di individualità che devono restare in ascolto.
PAC ha potuto assistere alla prima parte del laboratorio, non sappiamo quindi quanto sia stato complesso riportare il lavoro all’egemonia gramsciana ma abbiamo notato l’impegno con cui tutti i partecipanti hanno elaborato i compiti dati, non facili. La consegna riguardava l’utilizzo di un oggetto (tra quelli a disposizione) e la costruzione di una breve performance che tramite l’oggetto dicesse qualcosa di sé, scegliendo qualcosa che si sa fare bene oppure che non si sa fare, qualcosa che piace oppure che non piace di sé.
Senza entrare nello specifico di ogni restituzione possiamo però dire che la tendenza è a rappresentare qualcosa di drammatico, a volte anche violento, difficoltoso.
Forse che abbiamo un poco perso la capacità di guardare a noi stessi con ironia?
In ogni caso il lavoro di Catia e Karina serve senz’altro a far riflettere su quello di cui abbiamo bisogno, anche fosse solo uno sfogo temporaneamente liberatorio. E non è poco.