RENZO FRANCABANDERA | Tornando qualche settimana fa da Torino dopo Requiem pour L. di Alain Platel, programmato nella bella rassegna Torinodanza diretta da Anna Cremonini, avevo addosso un misto di euforica angoscia.
La creazione è nella sostanza  una Messa da Requiem, anzi precisamente è la riscrittura in salsa afro-jazz di quella celeberrima di Mozart, realizzata dal musicista contemporaneo Fabrizio Cassol, con il quale Platel ha collaborato anche per VSPRS – basata sul Vespro de la beata vergine di Monteverdi –, ma anche i successivi Pitié e Coup Fatal,
Requiem pour L. nasce proprio durante il tour di Coup Fatal con un gruppo di musicisti congolesi impegnati nel repertorio barocco europeo. E a volte la vita è beffarda, perché la proposta di lavorare su un adattamento del Requiem di Mozart arrivò a Platel proprio nei mesi in cui la sua vita venne scossa dalla morte del padre, del fedelissimo cane e del suo mentore, il direttore d’orchestra Gerard Mortier, assistito da Platel fino all’ultimo istante.
La creazione, molto semplice e pulita negli elementi coreografici ancestrali, porta sopra di sé un’incombenza immane, un segno scenico molto forte: un filmato in bianco e nero che è la ripresa delle ultime ore della vita di L., un’amica di Platel e Cassol, che ha evidentemente acconsentito all’utilizzo in funzione spettacolare del momento del suo trapasso.

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Omaggio a L. – disegno realizzato durante lo spettacolo da Renzo Francabandera

A sottolineare la forma liturgica dell’opera musicale, la scelta di Cassol di sostituire il finale incompiuto della creazione mozartiana con la Messa in do minore dello stesso autore.

Eppure, tornato a casa, vengo invitato a riflettere su cosa significhi il rapporto fra realtà e scena oggi, se e quanto abbia senso e valore artistico riprendere una morte e raccontarla tal quale in scena.
Mia moglie, nel confrontarsi con me e con il mio resoconto, sulla questione è stata radicale: bolla l’operazione come abietta e crudele. Nega la dignità dell’arte alla parte visuale del lavoro di Platel, e la etichetta come documentaristica al limite dell’immorale. Si infervora e mi chiede se sia umano o “bestiale” utilizzare anche il momento del trapasso di una persona cara come materia e carne da spettacolo, se non sia pura saprofagia, risorsa estrema per il nutrimento e la sopravvivenza di chi non può procurarsi altro cibo.
E questa cosa mi mette in crisi, mi fa fermare dallo scrivere dello spettacolo per molti giorni.
Diventa un assillo, una riflessione sul realismo nell’arte, e cerco almeno di capire cosa può aver spinto Platel ad un segno così consapevolmente estremo, e di averlo voluto presente non per qualche fotogramma di dedica ad inizio spettacolo ma, appunto, come segno incombente per tutta la durata di questo lavoro, per altro verso coreografato, suonato e cantato in modo struggentissimo dal fidato gruppo di artisti, parte dei quali già interprete dei suoi recenti lavori, quindi a conoscenza dell’estetica del coreografo.
Il realismo sta diventando uno dei temi centrali nel rapporto fra arte e scena nel tempo presente. Il rapporto con la realtà e la sua riproduzione, via via aumentata dal Settecento a oggi dall’introduzione di tecnologie sempre più sofisticate, ha generato un dibattito molto forte che non ha riguardato solo il tema della riproducibilità dell’opera d’arte, ma proprio della sua relazione con il reale.
Basti pensare che al celebre saggio di Benjamin sono seguiti, negli anni, il capitale studio di Erich Auerbach Mimesis – Il realismo nella letteratura occidentale, fino ad arrivare alla definizione di una nuova teoria semiotica, lo strutturalismo, che unitamente ad un ripensamento del rapporto fra realtà, simbolo e linguaggio, è arrivata a distinguere fra reale, immaginario e simbolico. Nella distinzione che ne fa in psicanalisi Lacan, ad esempio, il simbolico (ovvero il linguaggio, vera categoria dei traumi secondo lo studioso) è il sistema delle parole, quindi dei simboli, all’interno dei quali si iscrive la funzione di ciascuno. Nasciamo e per ciò stesso siamo “figli”, ci sposiamo e diventiamo “marito” o “moglie”; tutte queste significazioni prendono corpo, incidono sul nostro corpo e si intrecciano con un rappresentazione immaginaria dell’essere madre, figlia, marito. Diversa dalla funzione simbolica è quella dell’immaginario (rappresentazione) che spiega il modo di stare al mondo dell’individuo, in rapporto all’immagine con cui il soggetto si identifica: l’io si costituisce proprio sulle rappresentazioni “immaginarie” che lo riguardano e che si producono non casualmente, ma nel rapporto concreto che il soggetto intrattiene con le figure fondamentali della sua vita, con gli “altri”, ovvero il modo concreto in cui l’essere madre, figlio si declina nel vissuto di ciascuno in base a quanto soggettivamente gli accade.

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disegno di Renzo Francabandera

Il reale nasce quindi dall’intreccio tra simbolico e immaginario, e quindi per questa stessa ragione non ha nessuna possibilità di essere oggettivo, perché cambia da persona a persona. Il reale, per ciò stesso è impossibile, indicibile: sfugge alla dimensione del possibile, è l’impossibile da sopportare.

Provo allora a ragionare, tornando allo spettacolo e ai dilemmi di “crudeltà” esperienziale dell’artista al cospetto della morte: mi piacerebbe in astratto pensare che le funzioni immaginarie e simboliche, nel caso del trapasso, siano più vicine per la generalità delle persone rispetto ad altre esperienze del vissuto, e dunque la realtà potrebbe essere, se non oggettiva, almeno prossima a questa caratteristica.
Ma se in astratto si è agevolati nella comprensione del dramma da questa ipotetica oggettività (che mi rendo conto sia tutta da dimostrare e inizio a non crederla più già mentre lo scrivo), allora perché si rifugge il confronto sulla morte con così grande accortezza nella nostra società, quando dovrebbe essere una fra le poche cose che ci accomuna e succhi potremmo comprenderci con più facilità e similitudine di punti di vista?

Nel frattempo mi capita sempre in questo periodo la visione del film di quasi dieci anni fa Departures, del cineasta giapponese Yojiro Takita che racconta di un violoncellista che, costretto dalla cessazione della sua orchestra, deve inventarsi una nuova vita e accetta un lavoro come tanatoesteta, ovvero ricompositore delle salme; una pratica diffusa in Giappone, dove il morto viene ricomposto, vestito e truccato per un ultimo saluto dei parenti, nel tentativo di restituire la bellezza avuta in viso, di lavare via la stanchezza della vita per l’ultimo passaggio sulla terra. Anche in questa opera il centro è la narrazione della morte, in un film delicatissimo. Ripenso al volto di L., il delicato e a suo modo storicizzante bianco e nero che Platel sceglie, che evidentemente opera in senso anti realistico e contrapposto all’universo vivo e concreto dei danzatori, pur affliggendo il pubblico con una visione certamente drammatica, con il ralenti degli ultimi respiri, dello sforzo degli ultimi istanti di una donna, al letto della quale si capisce (pur essendo tutti fuori scena) arrivano amici e persone care per l’ultimo saluto. E le carezze su quel volto, di mani diverse, bianche, nere, a raccontarci di lei, dell’attenzione da lei data in vita a chi di attenzioni poteva averne poche. Sono quelle braccia africane a essere le prime a disperarsi attorno al suo collo nell’attimo della morte, dialogando involontariamente nell’istante della ripresa, ma concretamente in quello dello spettacolo, con il gruppo degli artisti che popola il palcoscenico dentro una scenografia ispirata al Denkmal di Berlino – il memoriale per le vittime dell’Olocausto – con steli nere di diversa misura sulle quali i musicisti-danzatori posano pietre, battono i piedi e le mani.

 

Photo Chris van der Burght

Il rito del commiato funebre, della messa, dell’ultimo saluto, cerca una ancestralità profonda e leggibile in modo transculturale nei corpi e nelle voci degli interpreti. Ci costringe a ragionare su un oggi complesso, a mettere a fuoco il reale, l’indicibile, cercando di avvicinarcisi proprio per quella ipotetica coincidenza, abbastanza simile per tutti, fra simbolico e immaginario della morte. Eppure, penso ora che questa coincidenza non esista, e prova ne è la condizione in cui io e la mia vicina di poltrona fruiamo lo spettacolo, lei che ha da poco assistito una persona cara nei suoi ultimi giorni. È evidente che per lei la visione diventa un percorso di passione che immagino le sia risultato davvero insopportabile.
In questo caso, dunque, il tema del realismo ha proprio questa declinazione socio-antropologica, ma vorremmo dire quasi anche psicanalitica, di avvicinarsi a quello che non si può dire, che non si può vedere. Cosa non si può vedere in scena e perché?
Nello stesso istante in cui lo spettatore realizza che assisterà agli ultimi istanti di vita di L., comprende che l’artista lo ha in qualche modo condannato a fare i conti con l’indicibile, a confrontarsi con il tabù del nostro tempo, con la morte che tutti rifuggiamo, con la quale non riusciamo a fare pace.
Il finale di Departures fa ragionare su come proprio la cura di quell’ultimo istante sia una chiave fondamentale, se non per la comprensione di questo grande mistero, quantomeno per lo spirito, per la ferita profonda che lascia in chi vive.
Platel chiede ai suoi artisti gesti di sofferenza e resilienza, mescolandoli a una leggerezza che a volte ha il sapore del vigore con il quale dobbiamo accettare il passaggio del testimone per rimetterci in viaggio. I quattordici musicisti/performer di diversi continenti – musicisti con i quali ha già lavorato (come per il Macbeth e Fatal Blow) e artisti per i quali questa è la prima collaborazione – si incontrano attorno al Requiem di Mozart e, in questo ideale camposanto ricostruito in scena, fra jazz, opera e musica popolare africana. Platel cerca la traduzione visiva e fisica di quelle associazioni di pensiero evocate dal Requiem: i movimenti legati ad una messa per i morti dal sapore creolo, l’entrare nella fossa comune nella quale il corpo senza vita di Mozart stesso fu abbandonato.
Da questa sorta di grotta dell’anima, in basso rispetto all’immagine gigante di L. che campeggia per tutto lo spettacolo in fondo alla scena, l’agire degli artisti di Platel riporta a uno stadio profondo drammatico, ineludibile, attorno al quale, in scena, si cercano passi e gesti di commiato, che percorrono la storia simbolica dell’umanità nei millenni.
Indietro. Fino quasi alla preistoria.
Alle pietre. All’età della pietra, che in fondo è ancora; cullati dallo struggente valzer nel quale Cassol riscrive il Lacrimosa di Mozart.
Ma si può raccontarlo filmando i momenti del passaggio? È legittimo ai fini artistici riprendere in sala parto una vita che esce dal grembo, oppure, in una casa, una vita che lascia il piano dell’esistenza terrena? Quale realtà è più cruda della rappresentazione della realtà stessa.
Lo sostiene finanche Lacan, che fa riflettere sul fatto che il bambino realizzi se stesso nell’immagine completa allo specchio. Questa è la prima identificazione, immaginaria, ed è due volte alienante perché dipende dallo sguardo della madre, fondamentale affinché il bambino possa riconoscersi.
L’immagine del corpo sostituisce la realtà del corpo.
Veniamo al mondo in quel momento, e non possiamo che farlo guardando qualcun altro.
Moriamo forse nello stesso modo?

 

REQUIEM POUR L.

Musica Fabrizio Cassol Dal Requiem Di Mozart
Regia Alain Platel
Direzione Rodriguez Vangama
Con Rodriguez Vangama (Chitarra E Basso Elettrico), Boule Mpanya, Fredy Massamba, Russell Tshiebua (Canto), Nobulumko Mngxekeza, Owen Metsileng, Stephen Diaz/Rodrigo Ferreira (Voce Recitante), Joao Barradas (Accordion), Kojack Kossakamvwe (Chitarra Elettrica), Niels Van Heertum (Flicorno Basso), Bouton Kalanda, Erick Ngoya, Silva Makengo (Likembe), Michel Seba (Percussioni)
Drammaturgia Hildegard De Vuyst
Assistente Musiche Maribeth Diggle
Assistente Coreografo Quan Bui Ngoc
Video Simon Van Rompay
Camera Natan Rosseel
Disegno Scene Alain Platel
Scene Realizzate Da Wim Van De Cappelle in collaborazione con Atelier Scenografico Ntgent
Disegno Luci Carlo Bourguignon
Suono Carlo Thompson

Les Ballets C De La B, Festival De Marseille, Berliner Festspiele
In Coproduzione Con Opéra De Lille (Fr), Théâtre National De Chaillot Paris (Fr), Les Théâtres De La Ville De Luxembourg (Lu), Onassis Cultural Centre Athens (Gr), Torinodanza (It), Aperto Festival/Fondazione I Teatri -Reggio Emilia (It), Kampnagel Hamburg (De), Ludwigsburger Schlossfestspiele (De), Festspielhausst. Pölten (At), L’arsenal Metz (Fr), Scène Nationale Du Sud-Aquitain -Bayonne (Fr),La Ville De Marseille-Opéra(Fr)
In Coproduzione Teatro Stabile Di Torino – Teatro Nazionale / Teatro Di Reggio Emilia Festival Aperto