ILENA AMBROSIO | Una scena quadrata, buia, quasi interamente occupata da una piscina piena per quattro dita d’acqua; al centro della piscina una sorta di palafitta; sulla palafitta un trono. Un uomo, nudo, si muove con una lentezza estrema, si veste di bianco ed entra nella piscina; indossa una maschera di plastica trasparente che gli deforma il volto; beve del latte.
Principia così Mater Dei della Piccola Compagnia della Magnolia, lavoro che rielabora per la scena il testo di Massimo Sgorbani.
Libera interpretazione del mito ovidiano di Giove ed Europa, Mater Dei colloca in un dove e un quando remoti e indefiniti, una madre e un figlio. A parlare è la madre, presa anni prima con la violenza da un dio fattosi animale per possederla.
Genererà tredici figli, tutti divini, eccetto l’ultimo: un dio mancato, un umano fragile, privo di parola – almeno così pare all’inizio – che la madre nasconde in una casa/nido lontana dal mondo per proteggerlo da chi, ora, arriva per cancellare quella «cosa sbagliata», la «bestemmia vivente».
Un flusso di parole continuo ed esorbitante, quello vomitato dalla madre interpretata da Giorgia Cerruti: fisicità prorompente, gesto – accennato o plateale che sia – sempre preciso e e puntuale nell’accompagnare il senso drammaturgico; una vocalità capace di passare senza apparente fatica dallo strillo isterico alla sensualità baritonale, dalla risata malefica al tremore della paura. Accanto a lei il figlio, Davide Giglio, riesce a non eclissarsi, tenendosi sempre presente in scena nella sua dimensione quasi embrionale, di essere umano talmente fragile da sembrare non ancora totalmente formato.
Intorno a loro una scena – pensata da Lucio Diana – continuamente plasmata da un disegno luci volto a trasferire su un piano immediatamente visibile le temperature emotive del racconto – davvero notevole il lavoro di Domenico De Maio – e riempita, resa “tonda”, dalla partitura sonora di Guglielmo Diana: una scena sinestetica verrebbe da dire.
L’operazione registica della compagnia è stata notevole e abbiamo voluto parlarne direttamente con Giorgia Cerruti.
Piccola Compagnia della Magnolia dal 2004 «ragiona al presente, con una tensione/riflessione contemporanea, sui nodi umani irrisolti ed universali che sono il cuore pulsante di certa drammaturgia classica». È, quindi, la prima volta che vi confrontate con un autore vivente. Quali affinità avete trovato nel testo di Sgorbani con la vostra idea di teatro?
Abbiamo conosciuto Massimo Sgorbani per puro caso mentre teneva un laboratorio di drammaturgia in un teatro che avevamo in gestione.
È iniziato un percorso di amicizia e poi un giorno ci ha detto che, avendo osservato e studiato il nostro lavoro, voleva tirare fuori un testo scritto anni prima.
Si incarnava perfettamente in noi due, ha detto.
Come compagnia abbiamo sempre lavorato a rielaborazioni prepotenti dei classici con riscritture e interventi registici spesso carichi.
Ma abbiamo letto quel testo e devo ammettere che abbiamo trovato subito delle peculiarità che combaciavano con nostri interessi non solo tematici – il mito, l’amore, le relazioni familiari, di sangue – ma anche nel modo di essere scritto.
Una scrittura “immersiva” che, come regista, mi ha sollecitato un lavoro sull’attore che da anni porto avanti con la compagnia, alla ricerca di una densità e una temperatura emotiva per le quali cerchi sempre di stare nel vero pur dichiarando apertamente una finzione.
Da questo punto di vista il testo sta molto nell’artificio, nella finzione, arriva al barocco. Mi pare abbiate trasferito questa densità sulla scena con numerosi segni – e segnali anche – che vanno ad aggiungersi al sostrato mitico; frammenti di cristianità soprattutto. Erano presenti nel testo o si è trattato di una vostra interpretazione?
In realtà il testo di Massimo procede come flusso continuo, bulimico, alla Joyce, della madre. Non ha indicazioni salvo, ogni tanto, qualcuna sulla creatura – qua ride, qua urla – ma nulla di più.
Tutto ciò che si vede è un nostro viaggio parallelo, anche se su linee presenti nel testo.
Ed è vero, c’è una polarità sempre in bilico tra grecità e cristianità.
Scavalchiamo sempre tra il parlare di dei e il parlare di Dio, di un dio figlio della vergine, del mondo del peccato nel quale la cristianità ci tiene.
C’è uno scavallo continuo e instabile tra questi due poli.
E l’elemento acqua? Rimanda all’origine, alla nascita?
L’dea della piscina nasce dal punto del testo nel quale si dice che la madre ha costruito questa casa per isolarsi e difendersi.
Così abbiamo pensato che una zattera potesse comunicare bene questo senso di solitudine, mentre mettere il figlio nell’acqua potesse dare l’idea dell’elemento placenta.
Come anche la maschera che il figlio indossa?
… e come anche il latte e la sua iniziale nudità.
Tutto ruota intorno all’idea di genesi sia divina che teneramente terrena.
C’è, di fondo, una grande tenerezza.
Accanto a questa moltitudine di segnai scenici ho riscontrato anche una quasi schizofrenica alternanza di coloriture emotive. La tua madre ha la rabbia e il terrore di una donna violentata ma anche la forte carica sensuale, che tocca l’oscenità, di una donna che, pur nella violenza, prova piacere. Anche questo è scaturito dal vostro intervento sul testo?
A livello di scrittura il nostro intervento registico è stato davvero enorme perché il testo, come ti ho detto, è un flusso quasi radiofonico.
Le immagini sono date proprio dal nostro tentativo di andare a far vivere la pagina.
Abbiamo tenuto come criterio quello di un’alternanza di terra e “deitudine”.
Da una parte questa donna/diva che per connettersi con gli dei indossa con frivolezza stravaganti occhiali da sole…,
… per poterli guardare nella loro luce accecante.
Esatto. Dall’altro lato, però, ci sono dei precipitati terreni nel ruolo di una madre molto cruenta, molto realista, quasi verghiana.
Il personaggio vive in questa continua alternanza.
All’inizio è un mostro, mostruosa come l’atto che l’ha presa.
Poi, piano piano, la polarità si affievolisce e rimane solo la madre.
Infatti solo verso la fine giunge la tenerezza della quale parlavi. E l’urlo finale del figlio – «Mamma!» – mi pare sancisca definitivamente il passaggio. Il tutto comunque in una narrazione più carica sul piano emotivo che su quello propriamente epico.
A questo proposito ti cito testuali parole di Massimo che mi ha detto: «Quando scrivo testi voglio lasciare al pubblico l’ebrezza dell’incomprensione».
Quindi una voluta nebulosità che nel suo dare ebrezza richiama un approccio sensoriale?
Esattamente. E questo penso abbia anche un valore “politico”: mantenere il pubblico almeno a teatro, in una percezione, appunto, sensoriale delle cose.
Lo spettacolo credo abbia per il pubblico anche delle influenze di teatro panico in queste immagini rutilanti che fanno appello a un impatto ventrale più che della mente.
Di certo l’atmosfera creatasi in Sala Ichos ha favorito questa concentrazione percettiva. L’avete percepito?
Assolutamente sì. Si è creata una vera bolla, e particolarmente speciale nella prima che hai visto.
Una bolla nella quale la parte scenografica e la varietà del disegno luci hanno concentrato una buona parte del senso del tutto. Avete puntato molto anche sull’estetica della messa in scena.
Beh sì, come dice il grande Castellucci, «l’estetica è etica».
MATER DEI
Drammaturgia Massimo Sgorbani
Regia, spazio, costumi Giorgia Cerruti
Con Giorgia Cerruti e Davide Giglio
Assistente alla creazione Fabrycja Gariglio
Musiche originali e sound design Guglielmo Diana
Style e visual concept Lucio Diana
Realizzazione scenografia Domenico De Maio
Maschera Michele Guaschino
Sarta di scena Andrea Portioli
Sala Ichos, Napoli
30 novembre 2018