LAURA BEVIONE | Sul treno che la porta a Milano, la vostra cronista teatrale è immersa nella lettura di uno dei primi romanzi dell’inglese Matt Haig, intitolato Il club dei padri estinti. Protagonista, l’undicenne Philip, il fantasma paterno del quale vorrebbe compisse per lui quella vendetta che gli regalerebbe una vita eterna serena. Un novello Amleto, insomma, vittima delle onerose responsabilità che i padri – di ogni epoca ma nella nostra contemporaneità in maniera particolarmente eclatante – amano caricare sulle fragili spalle dei propri figli.
Tematica che lo spettacolo che Mario Perrotta ha scritto in collaborazione con Massimo Recalcati sviluppa nelle sue infinite ma in fondo omogenee variabili.
Tre padri e tre figli, altrettante famiglie che occupano ermetici alloggi di uno stesso palazzo.
C’è il giornalista, colto e raffinato, alla prese con il suo Virgilio, che forse si sta trasformando in un Hikikomori; o forse è vittima di bullismo; o, ancora, fatica ad accattare la propria omosessualità.
C’è l’operaio, ex musicista, che non riesce a comunicare con il figlio Alessandro che, probabilmente, si vergogna del padre che parla solo in dialetto e che è addirittura andato da uno psicanalista per riuscire a risolvere il conflitto con lui.
C’è, infine, il burino arricchito, che si rolla le canne e va in discoteca con la figlia Giada, che ha timore di quel padre donnaiolo e incapace di uscire dall’adolescenza.
Virgilio, Alessandro e Giada: tre adolescenti che bramano una figura di riferimento forte e sicura o, forse, soltanto disposta ad ascoltarli senza preconcetti, senza aspettative, senza fretta…
Mario Perrotta, indossando, di volta in volta, una giacca differente – quella blu della tuta da lavoro per l’operaio, quella cammello per il professore, quella leopardata per il burino – si cala nei tre padri, diversi per cultura, aspirazioni, vicissitudini esistenziali, eppure accomunati dall’uguale incapacità di rapportarsi con i propri figli, ai quali implicitamente richiedono di essere ciò che loro stessi non sono stati in grado di diventare, di vivere quelle esperienze che a loro sono oramai negate.
L’attore/autore/regista interagisce con i pochi oggetti di scena – una chitarra elettrica, un tavolino – e con tre rigorose sculture, giacomettiane sagome di esseri alla ricerca di sé. Una scelta di essenzialità che permette di tratteggiare con maggiore efficacia le tre personalità maschili, incarnate da Perrotta con disinvolta e fluida adesione, riuscendo a conquistare un mirabile equilibrio fra personificazione e distacco critico.
L’interprete non giudica esplicitamente i propri personaggi né, d’altro canto, si immerge in essi con acritico coinvolgimento, bensì elabora una sorta di straniamento empatico, che gli consente, da una parte, di mostrare quanto sia pericoloso l’atteggiamento di quei padri e, dall’altra, di confessare quanto sia altrettanto facile cedere a quei comportamenti.
Perrotta, insomma, dichiara la propria inerme fragilità di fronte a quel ruolo enorme che è l’essere padre e, allo stesso tempo, afferma la solida consapevolezza di quella medesima gracilità, punto di partenza imprescindibile per costruire un rapporto sano con i propri figli, ai quali non si può chiedere di vendicare/riscattare le proprie piccole esistenze ma che si dovrebbe aiutare a diventare veramente se stessi: solo così, forse, l’esile specie dei padri non si estinguerà…
IN NOME DEL PADRE
di e con Mario Perrotta
consulenza alla drammaturgia Massimo Recalcati
collaborazione alla regia Paola Roscioli
aiuto regia Donatella Allegro
costumi Sabrina Beretta
musiche Giuseppe Bonomo, Mario Perrotta
allestimento tecnico Emanuele Roma, Giacomo Gibertoni
produzione Teatro Stabile di Bolzano, Permàr
Teatro Studio Melato, Milano
22 dicembre 2018
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