LEONARDO DELFANTI | Andiamo a teatro, andiamo a una veglia funebre. Così dovremmo entrare nella piccola navata unica della chiesa di Sant’Ambrogio e Bellino, ora Spazio AB23, a Vicenza: due corpi, distesi sul freddo marmo, ci attendono.
Vestite con l’abito della domenica, come se fossero appena atterrate dal Sulla città di Marc Chagall (1918), le anime di un uomo e una donna attendono di potersi librare nuovamente; attorno a loro sei sedie vuote, sul fondo un tabernacolo-finestra, chiuso. Inizia la veglia. Una mano, lenta e inesorabile come l’eternità che l’attende, si erge dal corpo-tomba: spettrale è l’anima che ci appare; come il tappeto sonoro dei refrigeratori di una camera mortuaria che affiora alla nostra coscienza. Ecco, vediamo lo stupore disegnato sul volto dei due fantasmi, quasi sentiamo nei loro gesti le domande che tutti ci porremmo, se provassimo a immaginarci defunti: dove sono? Com’è stato possibile? Lui/Lei dov’è?
È in questa ricerca dello spirito dell’amante di passaggio tra la vita e la morte che si snoda Iki, “due” in arabo, in programma per Danza in Rete Festival. Un’indagine paradossale per la regia di Daria Menichetti condotta assieme a Francesco Manenti sull’essenza dell’aldilà.
I corpi dei due interpreti acquistano la consistenza eterea dello spirito mentre vagano per la chiesa che li ospita alla ricerca di un indizio di materialità, di amore.
Forse è questo il limbo che Dante ci racconta nella Divina Commedia, forse questo ci attende nei tre giorni che separano la morte fisica dalla nostra ascesa al cielo: la sconvolgente certezza dell’immaterialità.
Solo quando l’anima accede al tabernacolo-finestra e, aprendolo, trova l’accesso per la porta della pace è possibile il ricongiungimento con lo spirito amato. Si può ora consumare la morte. Il movimento riscopre la consistenza dell’affetto in una danza che ha più l’aria di un flusso di energia che di un incontro amoroso.
Ecco, gli amanti si sono riuniti, la messa è finita. Che siano tumulati assieme, in pace.
Iki potrebbe essere definito un gioco, se non fosse che con la morte non si scherza.
Massima è l’introspezione richiesta ai danzatori nel momento del trapasso: la danza butoh, seppur non ripresa esteticamente, è presente nel principio di interazione tra la realtà interna ed esterna, in ogni entità della scena. Come se anche le sei sedie vuote, simbolo di raccoglimento dei parenti, e la finestra posta lì dove si trova l’altare, tendessero esse stesse alla trascendenza, a lasciarsi trapassare dallo sguardo e dalla mano degli spiriti che le interrogano, alla ricerca del senso, il senso della morte. Un’immagine di quel rituale, quell’usanza – la sepoltura – nella cui istituzione Ugo Foscolo, nel carme Dei Sepolcri, individua la nascita dell’essere civile dell’uomo e che il neuroscienziato Michael S. Gazzaniga ha declinato come la cifra che ci contraddistingue dagli animali.
Questo legame sarebbe inoltre suggerito dal binomio homo–humus, “uomo-terra”, individuando così nell’etimologia la radice della sepoltura. D’altro canto, anche in ebraico le parole Adam (uomo) e Adamah (terra) suggeriscono che «polvere sei e polvere ritornerai» (Genesi 3,19).
Iconografia cristiana, filosofia giapponese e spiritualità buddhista si intrecciano in questo studio sul senso della morte, ultimo di una trilogia sull’anima che ha visto Daria Menichetti interrogare il distacco tra corpo e spirito, con Animula (2016), e il tema dell’ascesa al monte, con Meru (2018).
«Tutto è partito da una poesia dell’imperatore Adriano, destinata alla sua anima. Adriano ha sessant’anni e dopo un incontro con il medico personale si rende conto, per la prima volta, di essere mortale. La trilogia nasce da quella percezione di essere finiti», rivela Daria nell’incontro pubblico che segue lo spettacolo.
Un incontro supposto breve ma che si è snodato per quaranta minuti, la stessa durata dello spettacolo, quasi a riflettere l’ancestralità del tema della morte nella cultura umana con l’eternità del tempo che, paradossalmente, non ci attende.
Il corpo morto, interrogato sul senso dell’esistenza, trova una nuova fisicità. Distaccato dalla sua corporeità il nostro involucro può ancora parlare d’amore.
Ecco, ora possiamo ritirarci, tornare alla vita, tornare a noi.
Piccola anima smarrita e soave,
compagna e ospite del corpo,
ora t’appresti a scendere in luoghi
incolori, ardui e spogli,
ove non avrai più gli svaghi consueti…
Imperatore P. AE. Adriano
IKI [studio]
di Daria Menichetti
di e con Daria Menichetti, Francesco Manetti
coproduzione DanceMe (Perypezie Urbane), Associazione Sosta Palmizi
con il contributo MiBAC, Regione Toscana/Sistema Regionale dello Spettacolo
con il sostegno C.U.R.A. Centro Umbro Residenze Aritistiche
con il supporto Corisa Of, Micro Teatro Terra Marique
Spazio AB23, Vicenza
2 marzo 2019
Danza in Rete Festival 2a edizione – Danza in Rete Off