ALICE CAPOZZA | «Dio si commosse: era nata la marionetta». Sono le parole di Heinrich von Kleist in Über das Marionettentheater (Sul teatro di marionette, 1810) che aprono, con la voce rugosa e profonda di Virginio Gazzolo, la prima nazionale al Teatro Goldoni di Firenze di questo nuovo allestimento del classico di Collodi, Pinocchio: commistione di diversi linguaggi teatrali contemporanei – danza, prosa, video e musica – per la coreografia di Patrizia de Bari e drammaturgia di Tuccio Guicciardini. Una sinergia di importanti istituzioni culturali della città – Opus Ballet, diretto da Rosanna Brocanello e Compagnia Giardino Chiuso, con Versilia Danza e Fondazione Fabbrica Europa e la collaborazione del Maggio Musicale Fiorentino – ha dato luogo ad una di rilettura di un classico della tradizione fiabesca, dove discipline e forme artistiche differenti trovano una sintesi interessante e contemporanea.
L’ouverture, così originale, ci colloca in una dimensione filosofica e poetica, piuttosto che favolistica, dialoga con una comprensione adulta del più famoso burattino di legno, discostandosi dalla interpretazione morale e pedagogica più popolare e comune. Nonostante il racconto danzato prenda avvio dal famoso incipit «C’era una volta…un Re! No, vi sbagliate. C’era una volta un pezzo di legno», le parole dell’attore restano nell’aria, dando una luce nuova alla nota storia.
La grazia splende purissima in quel «corpo di nessuna coscienza o coscienza infinita» che è la marionetta, interpretata con maestria dalla danzatrice armena Tamara Aydinyan, della compagnia Small Theatre/Nca di Yerevan. La ballerina danza con leggerezza senza sforzo sul primo movimento musicale, accompagnata dalla propria ombra riflessa sull’immagine di un albero sul fondo: fa del proprio corpo una macchina – proprio quale teorizzata Kleist nel suo enigmatico saggio – come instaurando un dialogo a distanza con le parole dell’attore.
Gazzolo ne annuncia l’ingresso definendo la narrazione epica quale l’ultimo capitolo della storia del mondo; accosta il burattino nato dal vile pezzo di legno – «non un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe» – al trascendente, al divino: il pupazzo snodabile e saltellante è elevato a simbolo, diventa la massima espressione di leggerezza, levità e capacità tecnica, unico interprete possibile dell’armonia. Per il ballerino di Kleist infatti è una chimera. Affascina il concetto meccanico della danza che arriva a considerare l’artificio emblema di perfezione pura, incontaminato dalla forza di gravità fisica e dalla corruzione emotiva umana. Quanto più il corpo si avvicina alla macchina, tanto più ne acquista in abilità e destrezza, e il movimento risulta perfetto, in quanto non è contaminato.
Dunque, perché mai diventare un bambino vero, perché non restare burattino? Perché suicidare la propria parte divina?
Contraddicendo le parole del saggio, ci lasciano esterrefatti i movimenti con cui l’ensamble affiatato costruisce i quadri danzati: non solo mera esibizione di virtuosismo tecnico, ma corpi capaci di suscitare emozioni.
Attento lo studio dei personaggi resi dai dieci danzatori che si alternano nella storia, interpreti di più caratteri.
Grazie allo studio coreografico e alle abilità mimiche, gestuali ed espressive dei ballerini, sono inconfondibili, ad esempio, i movimenti ambigui e striscianti del Gatto e della Volpe, un corpo solo che si intreccia nelle due danzatrici; oppure la fastidiosa saccenza saltellante del Grillo Parlante. Notevole la messa in scena, di cui lo stesso Pinocchio è spettatore, del teatro dei burattini di Mangiafuoco, che danzano su una musica bandistica, imitando lo stereotipo del teatro di figura, in voluta contrapposizione con la naturale marionetta, umanissima, della Aydinyan. Fino a momenti quasi comici, come l’ingresso dei Dottori, chiamati dalla bambina dai capelli turchini per guarire il fragile Pinocchio, tre figure impettite e ironiche accompagnate dalla tipica musica da carillon: loro umani che necessitano della carica a manovella per curare un pezzo di legno. Ancora la triste giostra dei balocchi, che ricorda le atmosfere felliniane, in cui i ballerini si trasformano in mostruosi clown deformi su note circensi, corredati di oggetti argentei, con l’espressione e le posture del corpo da animali ammaestrati.
La narrazione procede fedelmente nel solco dell’originale collodiano: raffigura lo sfortunato protagonista incapace di comprendere le insidie della dimensione terrena e umana, da cui viene ingannato, passando per umiliazioni, avventure, ebbrezza e miserie, dal paese dei balocchi al ventre della balena, dalla malattia alla prigione, in una continua spinta anarchica, creativa, di fuga, di ribellione. Lontana dall’edulcorata visione disneyana, Guicciardini recupera il sapore amaro della favola morale, esaltata dalle immagini che accompagnano l’intera narrazione danzata: il video di Andrea Montagnani contribuisce a dare maggior contenuto al balletto e a far vivere dei veri e propri quadri in movimento, come una didascalia scenografica virtuale, che cita esplicitamente i primi disegni del romanzo, fino a confondersi a essi. Unico oggetto in scena è un tavolo di legno: piano rialzato usato, all’occorrenza, come ripiano da falegname, letto, nascondiglio, sostegno per la danza, infine spostato a vista dai ballerini per la successione degli allestimenti.
I costumi realizzati da Santi Rinciari prediligono il bianco, il grigio e nero – ad eccezione delle tonalità cromatiche che caratterizzano il grillo e la volpe – non segnando una forma precisa, lasciando liberi i ballerini di muoversi a piedi scalzi. Anche le luci esaltano il carattere astratto e atemporale della rappresentazione; spesso di taglio, soffuse o a cono singolo, lasciando parte del palco in buio; spesso il gioco di ombre della scena si intreccia con la proiezione del fondale, anche sovrapponendosi in una unione interessante tra la performance dal vivo e il video.
La storia si colloca così in uno spazio senza tempo, a sottolineare l’eternità di un classico ascrivibile a pieno titolo nella grande letteratura, non riducibile certo a fiaba pedagogica per bambini.
Ogni quadro delle avventure di Pinocchio è ben caratterizzato dai movimenti, a volte astratti a volte più narrativi, accompagnati da suoni capaci di creare atmosfere davvero suggestive. La musica spazia da ritmi di percussioni, sonorità che affiorano spesso nel tappeto sonoro, a ricordare l’artigianato della falegnameria da cui Pinocchio proviene, a musica di mandolini e archi pizzicati dal sapore di canzoni popolari di inizio secolo; da vere e proprie esecuzioni bandistiche, particolarmente adatte alle atmosfere delle scene collettive, fino a musiche di compositori contemporanei.
Rientra sul finale l’attore – saggio umano o divino, non sappiamo – a raccontarci la trasformazione dal teatro di fili tirati da oscuri burattinai, al teatro degli uomini semoventi, biomeccanici – per citare le teorie teatrali di Mejerchol’d – costretti alla faticosa e pesante disciplina dei ballerini e degli attori. La marionetta, che ha in sé la perfezione, non possiede la parte spirituale, l’anima del danzatore. Bella l’immagine con cui spiega Gazzolo: un bambino cerca l’anima del pupazzo, lo agguanta, gira e rigira, percuote e sbatte, squarcia l’inerte fantoccio, ma ne scopre solo rotelle e ingranaggi, fili d’acciaio. «L’anima, l’anima, dov’è?»
Mentre la compagnia resta bloccata sulle parole dell’attore, con i piedi incrociati e le braccia cadenti, come un inchino di burattini senza fili, la voce filosofica di Gazzolo che sottende l’intero spettacolo, ci riporta al Pinocchio divino e immortale, che resta tale senza diventare un bambino vero, a chiudere il cerchio dell’evoluzione: «il sipario si aprì, ad entrare non fu il ballerino, ma l’angelo marionetta; recita l’angelo, guarda i morenti, noi, qui».
PINOCCHIO
interpreti Tamara Aydinyan, Leonardo Diana, Lorenzo Di Rocco, Isabella Giustina, Gianmarco Martini Zani, Stefania Menestrina, Giulia Orlando, Riccardo Papa, Françoise Parlanti, Jennifer Rosati
con la partecipazione straordinaria dell’attore Virginio Gazzolo
coreografia Patrizia de Bari
drammaturgia Tuccio Guicciardini
scenografia e video Andrea Montagnani
costumi Santi Rinciari/Opificio della Moda e del Costume
sound design Daniele Borri
ideazione e realizzazione elemento scenico Takeshi Tamashiro/Lautak
aiuto costumista Marilù Sasso
direzione tecnica Saverio Cona
coordinamento del progetto Rosanna Brocanello
un progetto di teatro danza di COB/Compagnia Opus Ballet e Compagnia Giardino Chiuso
in coproduzione con Fondazione Fabbrica Europa per le arti contemporanee e Versiliadanza
in collaborazione con Fondazione del Maggio Musicale Fiorentino
con il sostegno di Mibact, Regione Toscana
con il supporto di NCA.Small Theatre – Yerevan (ARM)
PRIMA ASSOLUTA
Teatro Goldoni, Firenze
16 marzo 2019