ANTONIO CRETELLA | L’inaugurazione del mese del Pride porta con sé ormai quasi inevitabilmente una critica sulla sobrietà dei cortei che sfilano nelle principali città italiane a difesa dei diritti della comunità Lgtb e, in generale, dei valori della diversità e dell’accoglienza. I critici più gesuitici, nel tentativo di non destare troppa indignazione, usano, per l’appunto, parole istituzionali quali ‘sobrietà’ o ‘decoro’, mentre quelli più disgustati adoperano termini come ‘pagliacciata’, ‘carnevalata’; fino ai timorati di Dio che preferiscono vetuste locuzioni quali ‘scandalo manifesto, tanto cara alla borghesia cattolica per la quale non si dice mai ‘gay, ma ‘persona con tendenza omosessuale’, lasciando l’espressione in una voluta vaghezza sospesa tra malattia e peccato.
Un vocabolario tardo-ottocentesco tradotto dall’epoca Vittoria fino all’ipocrita perbenismo italico post-bellico: una gabbia di parole gettata come cordone sanitario verso la manifestazione estetica, nel senso di rappresentazione concreta e percepibile, dell’alterità e della diversità che i rigidi censori della forma vorrebbero confinata alla sfera del privato.
Ciò che sfugge a costoro è che la forma del messaggio è il messaggio stesso: la sobrietà da essi richiesta è in buona sostanza sudditanza al classico paradigma etico contemporaneamente sessuofobo e sessuomane da cui dipendono omofobia e misoginia. La sobrietà è pertanto la catacomba in cui rinchiudere quell’esercizio vergognoso della propria natura, spegnimento di simboli, atto di rimozione forzata come i funerali a luci spente degli scomunicati.
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