ANTONIO CRETELLA | Il gioco di parole è un mezzo di comicità verbale di sicuro effetto e di massima resa sia nella più ridanciana comicità spicciola da cabaret che nel più sottile sarcasmo.
L’immediata comprensibilità e l’efficace sintesi di uno scarto sillabico, di un cambio di vocale o di un’assonanza lo rendono uno dei mezzi espressivi preferiti non solo dalla satira, ma anche dal giornalismo politico, sempre alla ricerca di espressioni a effetto in grado di condensare, nell’esiguo spazio di una titolazione, l’essenza di un lungo editoriale o di un sagace elzeviro. La soddisfazione per un gioco di parole ben riuscito è tale da indurre una sorta di dipendenza, di ricerca spasmodica di un nuovo guizzo creativo, di un’inedita associazione di idee che faccia riprovare la vertigine delle vette intellettuali.
Tale ebrezza, unita a un senso di voluttuoso autocompiacimento, deve aver sicuramente pervaso la mente di Mario Giordano quando ha coniato l’espressione “Cous Cous Clan“, ricalcata, ça va sans dire, sul tristemente noto Klu Klux Klan, per indicare la presunta invasione culinaria operata dai ristoranti etnici con l’invito esplicito ad adottare una sana alimentazione patriottica e sovranista in luogo di esotismi migratori come, appunto, il cous cous o il kebab. Giordano evidentemente ignora la koinè alimentare che lega le sponde del Mediterraneo, dove il cous cous è ricetta tipica condivisa tra Sicilia e Nord Africa, così come ubiquitarie sono olive e agrumi. A voler essere precisi, secondo il ragionamento di Giordano, dovrebbero pertanto chiudere tutti i fast food che propongono quel grumo di carne macinata proveniente dalla Germania per tramite degli Stati Uniti e che, ancora oggi al Nord, qualcuno chiama “la svizzera”; via tutti i wurstel e gli hot dog, ma anche gli americanissimi pomodoro e patata; a Novara, poi, chiudano tutte le risaie, evidente colonizzazione culturale da parte dei cinesi, con buona pace del risotto allo zafferano. Ci si nutra soltanto delle nostrane, autoctone e autarchiche ortiche.
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