ROBERTA RESMINI | Ci sono favole che raccontano sogni, utopie, innovazione, bellezza, in grado di donare speranza in chi le ascolta. Favole in cui operai lavorano in fabbriche belle, inserite nel territorio circostante nel pieno rispetto degli equilibri, in cui la tecnologia è al servizio del benessere. Fabbriche in cui pittori, artisti, letterati dirigono un’azienda, in cui architetti disegnano le case per gli operai, in cui il profitto va di pari passo con l’impegno etico, l’inclusione e la diffusione di una cultura che dia consapevolezza delle proprie responsabilità. Quella degli Olivetti a Ivrea è una favola reale che parla di rivoluzione, di comunità, di territorialità, di bellezza. Il modello di fabbrica fondato da Camillo Olivetti e portato avanti dal figlio Adriano, noto per aver realizzato la celebre macchina per scrivere Lettera 22 (di cui alcuni esemplari sono esposti al Museo della Triennale e al MOMA di New York), riesce a esaltare il legame fra bellezza ed efficienza: fattore certamente non nuovo alla storia del nostro Paese – basti pensare alle macchine di Leonardo da Vinci, esempio, in anticipo su scala mondiale, di estetica e funzionalità – ma in parte oggi dimenticato.
Camillo Olivetti alle radici di un sogno, andato recentemente in scena a Campo Teatrale, racconta la storia di Camillo, il pioniere, l’inventore, il capitalista illuminato, l’anticonformista capriccioso e geniale che fonda, agli inizi del Novecento, la Ing. Olivetti & C. – prima fabbrica nazionale di macchine per scrivere, meglio nota come La fabbrica di mattoni rossi – sui terreni ereditati dal padre morto prematuramente. Il lavoro elaborato da Laura Curino, nella regia di Gabriele Vacis, pone al centro il profondo legame del protagonista con il territorio del canavese, una regione del Piemonte che si estende tra la Serra di Ivrea, il Po, la Stura di Lanzo e le Alpi Graie, ossia il territorio compreso tra Torino e la Valle d’Aosta e, verso est, il Biellese e il Vercellese e che ha, tra i suoi centri principali, la città di Ivrea, città che ha dato i natali a Camillo Olivetti.
Sul palcoscenico l’attrice, con un sobrio completo nero – solo due foulard di colori diversi scandiscono i due capitoli principali della narrazione, anticipati da un epilogo, inaspettatamente all’inizio dello spettacolo, e da un prologo (alla fine).
La Curino riesce brillantemente a rapire con la sua forza carismatica l’attenzione dello spettatore senza mai far calare il ritmo di una storia che ha molto del visionario ma che è, allo stesso tempo, profondamente legata alla cultura e alle tradizioni del posto.
Ad accompagnare la recitazione pochissimi elementi: nessuna scenografia ma un leggio, nessuna luce particolare ad eccezione di quella che illumina l’attrice e i suoi movimenti, nessuna parte musicata, salvo nel prologo, in cui sentiamo la Moldava di Smetana, poema sinfonico composto nel 1874, pochi anni dopo la nascita di Camillo Olivetti, e che celebra il legame del compositore con la sua terra (analogamente al legame che unisce la famiglia Olivetti al territorio del Canavese).
In assenza di immagini costruite, la Curino rievoca con dovizia di particolari le domeniche di inizio Novecento al termine della messa e ci fa ascoltare, per il tramite della sua voce, i chiacchiericci e i commenti della popolazione di Ivrea rispetto alle scelte imprenditoriali dell’Ing. Olivetti; ci accompagna nella cucina di una famiglia piemontese della media borghesia per raccontarci la preparazione del bollito misto alla piemontese, di cui apprendiamo la ricetta e il segreto per una buona riuscita – la cottura lenta e paziente – e arriviamo quasi ad assaporare il gusto e l’odore. Ci accompagna tra i carri del Carnevale di Ivrea, reso celebre in tutto il mondo per la storica battaglia delle arance, che celebra la rivolta del popolo contro la tirannia feudale ma non manca, puntualmente, di lasciare dei feriti. Attraverso le sue parole entriamo in fabbrica e siamo presenti nel momento in cui Camillo chiede al collaboratore Burzio di radunare in cortile tutti gli operai e di mettere al centro una cassetta – «non così, rovesciata!» – su cui sale per parlare e coinvolgerli rispetto ai successi o ai problemi dell’azienda, rendendoli sempre protagonisti della vita della fabbrica.
Lo spettacolo ha una grande forza comunicativa, ma anche sensibilità e ironia, grazie alla capacità artistica di Laura Curino, capace di esibire un repertorio di mimica, vocalità e accenti per ben rappresentare i vari personaggi che popolano l’universo olivettiano, a partire dalla madre, Elvira Sacerdoti, alla moglie Luisa Revel, al collaboratore Domenico Burzio. La Curino modula e, a tratti, cambia la voce per trovare le sfumature migliori per connotare i personaggi, grandi e piccoli, maschili e femminili, in un’alternanza di dialoghi e monologhi. Domina lo spazio scenico con grande padronanza e ogni gesto è finalizzato ad accompagnare le parole: dal dito alzato a richiamare tutti i figli alla gestualità legata ai saluti in fabbrica tra l’ingegnere e i suoi operai.
Un lavoro iniziato nel 1996, esempio magistrale di teatro di narrazione, che restituisce la memoria della storia di un personaggio che ha portato il marchio italiano oltreoceano e la speranza che un mondo migliore, basato sugli ideali del lavoro, del rispetto, della centralità della persona, del bello e del ben-essere, sia davvero possibile. Lo spettatore percepisce che, proprio come Camillo Olivetti ha cercato di abbracciare in uno sguardo fabbrica, casa, figli e ambiente naturale, in una sintesi perfetta tra produttività, arte e creatività, allo stesso modo Laura Curino e Gabriele Vacis riescono a trasmettere un equilibrio perfetto tra ricerca documentale e arte, producendo uno spettacolo raffinato nella sua semplicità e proprio per questo efficace nel raccontare la favola vera di un sogno realizzato.
CAMILLO OLIVETTI, ALLE RADICI DI UN SOGNO
di Laura Curino e Gabriele Vacis
con Laura Curino
regia Gabriele Vacis
collaborazione alla drammaturgia Laura Volta
assistente alla regia Serena Sinigaglia
Campo Teatrale
8-10 luglio 2019