RENZO FRANCABANDERA | Chiunque sia stato anche solo di passaggio al Festival dei Tacchi in Ogliastra, organizzato ormai da venti anni da Cada die Teatro, non può non avere un ricordo nitido del fare arte dentro una specifica geografia, cui danno vita il gruppo di artisti promotori e i vari ospiti che di anno in anno si succedono. Grandissimi nomi della scena italiana e non solo che qui hanno deciso di abbandonarsi a un piccolo eremitaggio dal sapore indimenticabile.
Il festival, si diceva: si tratta di un progetto volto a un dialogo fra arte e territorio di grande robustezza, sulle orme dei lavori performativi cui negli anni passati aveva pensato (ma anche realizzato) una delle maggiori creative della contemporaneità in Italia, Maria Lai, che proprio in queste terre realizzò alcune delle sue ideazioni più ardite e d’impatto.
Giancarlo Biffi, direttore artistico e figlio d’adozione di questa terra, insieme ai suoi compagni di viaggio, continuano con tenacia, ogni anno, nei primi giorni di agosto, a rinnovare con le arti sceniche questo legame fra terra, uomini e pensiero. Lo abbiamo intervistato nel cuore di questa edizione del festival che andrà avanti ancora fino all’8 Agosto.
Giancarlo, cosa guardi la mattina quando ti svegli e ti ritrovi nella gola che attraversa questa parte di Sardegna e arriva da Ulassai ad Arbatax. Come racconteresti a un non vedente quello che hai di fronte la mattina?
Un mio amico, in età avanzata, purtroppo da qualche anno, oltre la moglie ha perso pure la vista, ma questi luoghi li conosce, li abita e oggi gli pare di vederli ancor meglio di prima ed è perciò lui a raccontarli a me.
“La vedi quella montagna?”, mi domanda.
“Ecco, da quel Tacco Maria Lai, un’artista fantastica, ha teso un lunghissimo nastro azzurro che, fatto passare tra le case di Ulassai, ha legato il paese alla montagna. Ma se guardi davanti a te, – precisa – oltre la gola, c’è Gairo vecchia, il paese franato a valle, mentre un poco più su c’è la nuova Gairo, ricostruita dopo l’alluvione. Poi, se ti giri, dietro le nostre spalle vedrai la corona dei Tacchi d’Ogliastra che circondandoci ci accoglie.
Qui siamo alla Stazione dell’Arte, dove prima giungevano i treni e che ora accoglie le opere di Maria Lai. È come stare su un grande terrazzo e mirare l’infinito, con profumi e odori che, inerpicandosi dalla Valle del Pardu, mi ricordano quando ero bambino e venivo qui a lanciare sassi al cielo, convinto che una volta o l’altra uno di questi non sarebbe più ricaduto a terra”.
I paesi di Ulassai e Jerzu ci ricordano che spesso è proprio dalle periferie che nascono le idee più audaci. E mentre lo sguardo corre veloce al mare che si scorge in lontananza, “Giancarlo,” mi dice il mio amico, “spero che quello che io ho visto anche i tuoi figli e i figli dei tuoi figli possano vederlo, poiché forse il compito è proprio questo: mostrare l’invisibile, raggiungere l’impossibile.”
Quanto la geografia di questo luogo racconta del progetto artistico che le avete costruito dentro, attorno, e da cui voi stessi vi siete fatti circondare?
Parco eolico, territorio viticolo, Tacchi d’Ogliastra, Stazione dell’Arte, si potrebbero pensare Ulassai, Jerzu e Gairo come un grande parco per l’individuo. Dove natura, energia, arte e comunità, creando una miscela benefica, donano la possibilità di poter consolidare un proposito d’avanguardia unico: l’incontro tra arte e ambiente, con la complicità della popolazione locale, che ha preservato nel tempo questo immenso patrimonio naturale, sociale e umano.
Piccoli paesi per un laboratorio permanente d’arte e cultura, in costante dialettica fra avanguardia e tradizione, ambiente e comunità. Un cantiere artistico dove si prova a costruire, prendendo ispirazione da tutto ciò che ci danza attorno. Il “locale” che si confronta con il “globale” preservando la sua forte identità. Non il semplice subire… discorsi, leggi, modalità centrifugate da altri, in altri contesti ma la forza e l’esigenza d’essere voce ascoltata nel concerto artistico mondiale.
La Sardegna non è solo mare, attenzione passiva, ma un patrimonio di uomini, donne, ambiente e cultura da proporre al futuro. L’offerta è stata lanciata, le prospettive sono affascinanti, il cammino è di quelli che danno ossigeno alla mente e nuovi battiti al cuore.
Spesso per gli artisti che lavorano in Sardegna diventa rituale la domanda sull’isola, io invece vorrei farvi una domanda sul concetto di cultura nazionale e internazionale. Secondo te, dal punto di vista artistico, il concetto di nazione è superato? E se sì, pensi davvero che quello di comunità stia poi tanto meglio?
A dire il vero mi sento nazionalista solo quando gioca la Nazionale, per il resto ho sempre creduto di appartenere a un’unica comunità, quella dei saltimbanchi, degli attori, dei libertari che, storicamente e geograficamente, non hanno mai avuto né patria né casa, e che ancor oggi credono, che «Nostra patria è il mondo intero, nostra terra è la libertà e un pensiero…». Sono figlio di una grande macroetnia che mette insieme il danzatore Kathakali e il cantore lappone, convinto che la partita non sia ancora terminata e che ci sia ancora la possibilità di giocare qualche altro tempo, magari partendo proprio da qui: dalla periferia dell’impero, magari insistendo nel mettere al centro del campo l’ambiente e la cultura.
Un anniversario in fondo serve più che altro a fare dei bilanci e a guardare ai progetti futuri. Cosa è stato in questi anni il Festival dei Tacchi?
Forse, seppur giunto al suo ventesimo anno, la premessa a un viaggio ancora tutto da intraprendere e lontano dall’essere terminato. Un Festival che estendendosi, nel tempo e nello spazio, ha provato a operare nell’intimità dell’animo, incontrando paesaggi e ambienti che spesso l’hanno fatto riflettere sul suo procedere.
Jerzu, Ulassai, Gairo non sono solo tre paesi lungo una strada, ma anche il segno di un tentativo di resistenza caparbia all’omologazione. La ricerca coraggiosa di una propria specificità nella consapevolezza dell’estrema difficoltà di poterla raggiungere e rivoluzionare.
E cosa pensi che sarà nei prossimi?
Continueremo il cammino intrapreso, lungo la congiunzione che lega l’umiltà all’audacia. L’umiltà di chi è consapevole che ha ancora molto da imparare e l’audacia nell’esprimere in forma scenica l’urgenza di dare rappresentazione ai sogni. Per allontanare la fine e provare ad aprire nuove vie, su montagne conosciute e da molti già scalate. Provare a giungere in cima tracciando altri percorsi che rimarranno nel tempo e che altri potranno ripercorrere. Attraversare mari solcati più volte, sfidando l’azzardo con nuove antiche rotte. Confrontarsi con il teatro, modificando approccio, sovvertendo modalità e schemi collaudati, per farsi sorprendere dal suo essere vivo. Per un futuro ancor tutto da allestire.