ANDREA ZANGARI | Com’è difficile finire, ovvero: la settima edizione dello Sponz Fest, tenutasi dal 19 al 25 agosto a Calitri (AV) e dintorni, in Alta Irpinia. L’ultima? Così si è sempre prospettato in passato: sette, tanti dovevano essere gli anni di vita di una creatura il cui corpo non è facile distinguere da quello del suo insostituibile custode e direttore artistico, Vinicio Capossela. Tutto iniziò nel 2013, con un disegno artistico ed un programma a misura delle grotte del borgo e dei suoi vicoli, un “cervello architettonico”, come lo ha definito Capossela. Sponz viene da sponzare, termine dialettale che indica l’ammollamento del baccalà in acqua. Metaforicamente: spandersi, rilasciando le tensioni che ci tengono contratti in noi stessi. Ma la parola rimanda anche allo sposalizio. Proprio dalle musiche dei matrimoni tradizionali partì l’ideazione dello Sponz, dall’evocazione di un rito le cui trasformazioni sono specchio di un mutamento civile per certi versi distruttivo, al passo del brutale spopolamento dei territori interni come l’Irpinia. Con un altro rito tutto si è concluso: un rito funebre, ça va sans dire, per arrivare sottaterra. Perché, come il direttore artistico ha spesso ricordato, la tradizione calitrana del matrimonio prevede al settimo anno un passaggio cruciale, una possibile fine. Sebbene questa parola non sia mai stata pronunciata nei giorni del festival, rilanciando dubbi e speranze degli sponzati (così si identifica il popolo dello Sponz).

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Foto di Edoardo Carlo Ceretti

Certo il tema di questa edizione, Sottaterra appunto, lascerebbe presagire un seppellimento più che metaforico. Per sette giorni un filo rosso, anzi nero, ha percorso Calitri, Villamaina, Cairano, Lacedonia, Sant’Angelo dei Lombardi. Lo Sponz, come in altre edizioni, si è diffuso in altri borghi irpini, a tutto vantaggio di una visibilità tentacolare, contro la logica “concentrazionistica” di molti festival. Bisogna d’altro canto “sponzarsi” anche sulla cartina geografica, diramandosi in passeggiate, trekking organizzati e inevitabili trasferimenti automobilistici, alla faccia della rete di trasporto pubblico pressocché inesistente (una toppa la mette la navetta provvista dall’organizzazione, per l’utenza debole). Quel filo scuro ha preso, fra le altre, la forma e il nome di Trenodìa, un’opera d’arte partecipata, ideata da Vinicio e Mariangela Capossela nell’ambito di Matera capitale europea della cultura 2019.

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Foto di Edoardo Carlo Ceretti

Decine di prefiche volontarie, senza limitazioni di genere, hanno performato uno schema rituale in tre tempi, ripetuto in diversi luoghi dello Sponz e non solo: da Isola di Capo Rizzuto (KR), prima del festival, a Tricarico (MT) e Matera, dopo. A una stazione preparatoria, in cui i veli rituali vengono tinti di nero, segue il corteo vero e proprio, scandito da letture, danze, azioni corali; infine, un banchetto funebre. Un esorcismo efficace, poiché innalzato in canto collettivo da una drammaturgia carnalmente poetica, scolpita nel metro greco. Un accompagnarsi sotto la terra, lì dove allignano le radici; dove la vita, organicamente, si ri-crea. Arricriarsi, recita un verbo lucano che dice l’ozio rigenerativo. Come un leitmotiv quotidiano, Trenodìa ha fornito la chiave per capire il senso della programmazione musicale: trasfigurati dal rito, gli eventi sprigionano la loro essenza festosa. Si danza su ciò che è sepolto, per festeggiare ciò che rimane.

 

Foto di Simone Cecchetti

E si è danzato molto, soprattutto nell’attesissimo concertone del sabato, quello in cui Vinicio Capossela, bestiale istrione, tira le fila della settimana, riproponendone temi e parole chiave, cantandone su un palco tanto affollato quanto catalizzato da lui. Ultimo di tre concerti serali, iniziati il giovedì con Enzo Avitabile e riuniti sotto il nome della rassegna-nella-rassegna Sponz Pest, è durato più di sei ore. Fra un tramonto e un’alba, quando un indemoniatissimo Ballo di San Vito, offerto come secondo bis, richiama i molti già in cammino verso il meritato riposo. Sarebbe bastato vivere quel momento, quando le ginocchia provate dalle ore di veglia non hanno resistito al dietrofront, per capire la voglia di partecipazione che lo Sponz ha saputo suscitare.  Più moderata è stata la risposta al concerto del venerdì: A ‘mascarata. Trap, Pest e altre Dannazioni. Una carrellata di voci eterogenee, da Morgan a Young Signorino, da The André a Enzo Savastano, da Livio Cori agli Almamegretta, la cui ostentata giustapposizione ha originato molte critiche su una presunta perdita di “purezza” rispetto al passato. Eppure la provocazione non è stata priva di chiose a mezzo stampa o via social, né, a nostro avviso, è parsa inconsistente. Le singole personalità, anzi, hanno saputo declinare, forse più o meno consapevolmente, l’anima carnascialesca della festa. A forza di autotune, voci smorzate dai fumi dell’alcol, caustiche ironie sull’indie-pop e piccoli inchini neomelodici, il bric-à-brac ha svolto perfettamente la sua funzione di frullatore sonoro. Un bagno atavico nell’energia ctonia che la musica contemporanea continua a diffondere ai tempi della trap, espressione totalizzante della mercificazione musicale. Se questa è la peste che dissipa (a’ pest), inno al consumo irrefrenabile dell’umano, nella stessa danza sfrenata degli untori e dei sopravvissuti già sono i semi della rigenerazione. Le società che hanno conosciuto la peste, ci ricordano molti storici, sono in effetti società inopinatamente gioiose. Inatteso seguito ha avuto infatti Young Signorino, performer dissacratore che impone suoni e parole brutali, in (ricercato?) contrasto con una presenza scenica naive, evitante e persino timida, un po’ à la Andy Warhol.
Ma chi conosce lo Sponz sa che la programmazione vive soprattutto di un humus di piccoli eventi, letture, laboratori e piste da ballo spontanee, disseminati nei borghi a qualunque ora del giorno. Molti i nomi nostrani, come la Banda della Posta, Roy Paci, Daniele Sepe, e altri che vengono da lontano come Micah P. Hinson, Manolis Pappos, Dimitri Mistakidis, Flaco Maldonando. Tutti artisti che sono tornati negli anni a Calitri, alternandosi in collaborazioni d’eccellenza, sul palco e fuori, con l’ospite Capossela. Una comunità di fatto ormai riconoscibile, sorta di collettivo folk.

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Foto di Edoardo Carlo Ceretti

Per quanto apparentemente eccentrica, è stata forse questa l’ultima edizione, come si diceva. Tempo di bilanci, per una festa che nacque piccola come la casa dell’ECA, dove si sono tenuti, dal dopoguerra fino al tragico terremoto, i ricevimenti dei matrimoni calitrani. E che poi si è espansa fino a diventare un riferimento nell’estate festivaliera, attraendo un pubblico anagraficamente e geograficamente eterogeneo. Lo Sponz è giunto, involontariamente, a farsi carico dell’aspettativa di riscatto di uno fra i territori più distanti dai poli produttivi e culturali del Paese. Spesso dunque è risuonato quel senso di abbandono che molti festival producono, bruciando in pochi giorni un’aspettativa che si gonfia per un anno e che lascia poi la scena a un vuoto tanto più assordante quanto più popolosa è stata la festa. Si manifesta così una psicosi locale, debolezza di un territorio in attesa di rigenerazione per mano esterna. Fino al fenomeno, di cui si parla sui social, della “sindrome da dopo Sponz”. E nella frustrazione germinano polemiche sull’effettivo ritorno per la cittadinanza. Polemiche per lo più ingenerose, se non altro perché la visibilità, sia pure pro tempore, è stata notevole. Né si può pensare che un contenitore artistico debba di necessità farsi immediato volano di un’economia nuova. Ci sarebbe piuttosto da chiedersi quanto il disegno artistico-culturale sotteso ai sette anni dell’iniziativa abbia penetrato le coscienze degli sponzati seriali o occasionali, locali o forestieri. Un disegno che ha promosso la cultura materiale come entità viva, palpitante nel linguaggio, nell’arte, nel paesaggio. Una propensione a vedere continuità che è di per sé panacea per una terra spaccata e spopolata, e che mette a riparo dal rischio di musealizzare il patrimonio o da quello, parallelo, di fare del festival una vetrina folklorica. Alla luce di ciò, suonano risibili le proteste della Lega locale, indispettita dalla presenza di Mimmo Lucano, additato come portatore di istanze politiche in un festival che si vorrebbe incolore teatrino delle tradizioni. Lo Sponz fest ha sempre avuto il respiro di un implicito progetto politico, sovversivo proprio nel non avallare la svendita del territorio, nel non piegarsi alla dittatura del turismo come cura di tutti i mali; limitandosi a illuminare, piuttosto, la ricchezza che già c’è. Visione che ha trovato apice nella cessione per un giorno, sabato 24, del titolo di Capitale Europea della Cultura da Matera a Calitri e agli altri comuni riuniti dal festival. Certo, il patrimonio immateriale così rivelato è meno monetizzabile di potenziali ristoranti, alberghi, B&B. Ma se una critica si può avanzare a tal proposito è semmai sull’assenza di una programmazione diluita nell’intero anno, magari arricchita di residenze artistiche o altri focolai produttivi più stabili: quanto avrebbe permesso a quelle energie invisibili di proliferare, qualificare lo spazio fisico di Calitri, illuminarne i mesi bui, raccogliere affezioni più durature.

 

Foto di Edoardo Carlo Ceretti

Oggi, però, l’emergenza è un’altra: lasciare che lo Sponz finisca, secondo il disegno originale, sebbene mai ufficialmente ribadito, di esaurirsi in sette anni. A valle dei quali si è ripresentato sfibrato proprio nel suo legame con la comunità locale. Colpa di inevitabili fraintendimenti, proiezioni eccessive, manovre politiche. Forse, della miopia culturale di una terra ancora da dissodare; di certo, non di malaccortezze artistiche o organizzative. Basti pensare allo spostamento delle attività notturne dal borgo, dove le cantine aperte garantivano un suggestivo saliscendi nelle porose viscere di Calitri, al Vallone Cupo, altipiano splendido ma de-localizzato. Ciò per soddisfare una richiesta di quiete degli abitanti, legittima, ma che rattrista in un paese affogato nel silenzio per il resto dell’anno. Sintomo della comprensibile difficoltà a finire le cose belle, soprattutto in un’epoca di diffidenza verso il domani? Sia come sia: lasciate che lo Sponz finisca qui, perché abbracci fino in fondo la sua natura organica di festa-bestia che invade, insemina e muore. Se continuasse per lo spavento del vuoto, molte parole spese negli anni sarebbero contraddette. Come quest’ultima edizione insegna, sottaterra c’è vita che rinasce, sì, ma in altre forme.