RENZO FRANCABANDERA | Quando ci arrivi di fronte, quei murales iniziano a prendere vita, diventano tridimensionali. Quel muro si muove.
Sta a chi osserva decidere l’ordine con cui leggere le cose, che non hanno un ordine necessario e aprioristico, un po’ come il capolavoro del poeta e scrittore a cui è dedicato questo luogo, Julio Cortázar. Rayuela, il gioco del mondo è un antiromanzo in cui le sue esperienze di vita parigina e argentina si mescolano e si riflettono: gli oltre 300 paragrafi del libro possono essere letti nell’ordine specificato dall’autore all’inizio, oppure in ordine di comparizione.
Anche Teatro Nucleo nasce così, dall’Argentina all’Europa, nei caldissimi anni Settanta, fra fughe, dittatura, utopie dell’arte. Ci troviamo sulla riva destra del fiume Po, al confine fra Emilia e Veneto, nel paese di Pontelagoscuro, alle porte di Ferrara. L’edificio in cui sorge il teatro, risalente al primissimo dopoguerra, fu costruito per essere adibito a magazzino di granaglie, poi fu cinema e salone festivo con il nome Astra, per poi divenire CinePo sino alla metà degli anni ’80.
Nel 1989 il Comune di Ferrara acquisisce l’immobile e lo assegna in convenzione alla Cooperativa Teatro Nucleo, Centro di Produzione di valenza regionale: poi un decennio di lavori, non senza intoppi, per arrivare al 2003, quando il Teatro Nucleo riprende le attività nella struttura, anche se non completamente ultimata.
Nel 2005 il Teatro viene inaugurato e dedicato a dedicato appunto a Julio Cortázar, in omaggio alle radici del Teatro Nucleo; e agli artisti argentini Omar Gasparini e Ana Serralta viene affidata la realizzazione dei due grandi murales che oggi ornano le facciate del Teatro. Quello a nord-est racconta la storia e la vita creativa della compagnia teatrale, quella a sud-ovest, realizzato con la partecipazione attiva della comunità pontesana, racconta proprio la storia di Pontelagoscuro prima e dopo i bombardamenti alleati che la rasero al suolo nel 1944.
Teatro Nucleo è ora un ente di produzione, formazione, ricerca teatrale, riconosciuto dal Fondo Unico per lo Spettacolo del MIBAC e dalla Regione Emilia Romagna, una lunga strada da quel 1974 in cui dall’altra parte del mondo, a Buenos Aires, Cora Herrendorf e Horacio Czertok fondarono il loro sodalizio artistico con il primo nome di Comuna Nucleo. Si stabilirono poi definitivamente a Ferrara nel 1978, aggregando artisti e attori attorno a questo progetto in cui la cooperativa teatrale, i fondatori e le nuove generazioni di attori e registi provano a continuare a operare in sinergia con altre realtà associative e istituzionali.
Come si fa a raccontare una storia così?
Si possono solo immaginare le centinaia di aneddoti, i viaggi per il mondo, gli allestimenti pazzeschi di teatro di piazza. Un progetto sostanzialmente irraccontabile, velleitario, utopico, donchisciottesco, esattamente come il loro Quijote!, emblematico e rivoluzionario spettacolo dedicato all’antieroe di Cervantes, glorioso perché sconfitto, lirico nel suo fallire, eppure vivo e continuamente evocato; quello al quale Picasso dedicò forse i suoi tratti più sintetici e commoventi. Uno spettacolo allegro e trascinante, di cui ha lasciato memoria anche lo scrittore Eduardo Galeano.
E così, in nome di tutto questo (e di molto altro, ovviamente) finiamo per accettare il solito invito, ad agenda già piena, e arriviamo sul fiume. Il grande fiume.
Arriviamo nel ferrarese, e ci troviamo davvero a navigare, goldonianamente, su una barca di folli, di utopisti delle arti dal vivo, raccolti a consesso da Teatro Nucleo. Ci portano su una piccola imbarcazione da Pontelagoscuro alla Darsena di Ferrara, attraversando i canali. E anche qui storie di donne indipendenti che traghettavano a braccia la gente da una riva all’altra del fiume.
Natasha Czertok, figlia di Horacio da alcuni anni sviluppa infatti all’interno della progettualità di TotemArti Festival, il focus Totem Scene Urbane, una riflessione collettiva su temi cari alla storia di Nucleo, come quello la rigenerazione urbana, l’ “apertura alla bellezza”, il diritto/dovere alla cultura.
Nell’articolazione di questa proposta culturale partecipata e aperta agli abitanti del territorio, si è così deciso di far convenire a Pontelagoscuro molte delle realtà che in Italia si occupano con modi e forme diverse di audience engagement, ossia della partecipazione pratica della comunità alla progettazione e realizzazione di eventi/momenti socio-culturali capaci di “significare”, modificare e, talvolta, migliorare il contesto urbano in cui si agisce.
Fra queste, Anna Gesualdi di Altofest (Napoli), Federica Rocchi di Periferico (Modena), Chiara Tabaroni di S.I.A (Casalfiumanese), ma anche il Festival perAspera (Bologna) e il collettivo multimediale 7-8 chili (Ancona), la curatrice Vittoria Lombardi, il rapper Moder con i suoi laboratori di scrittura di canzoni rap nella multietnica Lido Adriano, e ancora Stalker Teatro (Torino), Ondadurto Teatro (Roma), Theatre en vol (Sassari), Abraxa Teatro (Roma), Teatro Due Mondi (Faenza). Una tre giorni che ha letteralmente attraversato il territorio, andando (anche fisicamente, usando la barca davvero!) da Pontelagoscuro a Ferrara.
Vorremmo evitare di fare la piccola cronaca dI tizio ha detto questo, caio ha detto quello. Erano docenti universitari e operatori culturali, fotografi e architetti, registi e attivatori territoriali, con la partecipazione dei cittadini, per per individuare strategie di rigenerazione della città attraverso le arti. Ci è rimasto senz’altro in testa il monito del prof. Franco Farinelli, già Presidente dell’Associazione Italiana Geografi, che in dialogo con Giuseppe Scandurra, docente di Antropologia culturale all’Università di Ferrara, Nicola Marzot, architetto dello Studio Performa e docente dell’Università di Ferrara, e con l’attivatore territoriale Werther Albertazzi, fondatore di Planimetrie Culturali, associazione pioniera in Italia sui temi del riuso temporaneo degli spazi, ci ha ricordato come l’idea del potere territoriale, fin dall’antichità si fondi sul terrore, ma anche che la rivoluzione digitale, le reti neurali, hanno totalmente sconvolto il concetto di geografia per come lo abbiamo inteso finora. E che nonostante Google maps e altri artifici di rappresentazione del pianeta attraverso la tecnologia, questo risulti senza meno irrappresentabile.
Non solo. È la terra stessa, ora, a soverchiare l’uomo e a ribadire il suo potere, forse anche il suo terrore, su quello delle forme di organizzazione sociale che finora l’essere umano si è dato. Le urgenze a cui saremo messi di fronte ci riporteranno molto indietro nel tempo e nei modi con cui la vita si è evoluta.
Questa sfida identifica nell’essere umano di qualsiasi genere, etnia, età, classe sociale un possibile interlocutore. Da un imperativo di giustizia elementare e dall’idea che proprio in costoro è possibile trovare nuova linfa e nuovo senso alla vita e all’arte, arriva quindi l’invito a rivolgere grande attenzione a tutti gli esclusi dalla fruizione e dalla produzione, anche artistica ovviamente, visto quanto l’arte ha potere vaticinatorio per l’uomo e sa predire il futuro. Chiunque potrebbe salvarci.
Le soluzioni potrebbero essere in una qualsiasi delle intelligenze che nascono sul pianeta.
Ecco dunque che torna il filo rosso già tessuto nell’edizione del 2018, ovvero le relazioni: personali, politiche, astratte, sociali, poetiche, necessarie o impossibili, alla base della sopravvivenza del genere umano, del sano funzionamento di una città, dell’accrescimento del senso di civiltà e comunità, oltre che della costante ricerca della felicità.
In questa prospettiva, sono stati emblematici sia l’esito alla Darsena di Ferrara del laboratorio di danza diretto da Giorgio Rossi che la proiezione del film Sogni comuni diretto da Alessandro Scillitani con la voce narrante di Paolo Rumiz: un viaggio nell’Italia delle storie “normali” di piccole comunità che provano a contrastare un declino apparentemente già scritto mettendo in campo risorse imprevedibili, rimettendo al centro l’idea della fedeltà al bene comune.