FRANCESCA PALUMBO | Nell’Islam, l’espressione in šāʾ Allāh [in arabo إن شاء الله], ovvero ‘Se Dio vuole’, manifesta la speranza di un credente affinché un evento possa accadere in avvenire. Dal connotato palesemente religioso, questa può significare anche ‘sia fatta la volontà di Dio’. L’espressione è usata da molte popolazioni arabe e anche dai musulmani di lingua inglese, francese, tedesca o italiana. Inshallah è anche il nome che dà il titolo a un’intrigante mostra fotografica allestita nel Castello di Conversano in occasione del recente festival letterario nazionale Lector in Fabula. Una mostra che in realtà approda in Puglia dopo essere stata inaugurata e promossa promossa dall’Ambasciata della Repubblica Armena presso la Santa Sede e successivamente all’Istituto di Cultura Italiana di Budapest presso la Galleria Xenia, e a Lucca presso palazzo Guinigi.
Un percorso di immagini che colpisce per la capacità del fotografo fiorentino Michele Borzoni di ritrarre, in maniera oggettiva, le numerose facce di una minoranza in difficoltà. L’eredità del mīllet ottomano e il sogno di uno Stato cristiano.
Nell’attraversare gli spazi espositivi del Castello, mi sento incuriosita ma anche un po’ prevenuta, lo confesso. Mi aspetto immagini già introiettate e un racconto forse già sentito troppe volte. Nella mente faccio riferimenti immediati al libro della Fallaci che porta lo stesso nome, ai racconti sulla Terra Santa e quel viaggio che vorrei fare da tanto tempo in quei luoghi e che è ancora in sospeso tra i miei programmi.
Il titolo completo della mostra è Inshallah, comunità cristiane nel Medio Oriente e la prima immagine che incontro è quella di un giovane uomo che guarda la luce all’interno di una stanza tutta in penombra nella quale si intravede soltanto un tavolino coperto da un tessuto sacro e lui e nell’atto di sistemare un piccolo lampadario. La potenza mistica mi rapisce e lascia scivolare via il pregiudizio rispetto alle aspettative. Sono circondata da visioni nude e molto vere che però raccolgono e restituiscono una qualità di luce estremamente autentica. All’improvviso mi sembra di essere davvero anch’io fisicamente in quei posti. Ciò che più colpisce infatti è il tentativo vincente da parte del fotografo Michele Borzoni di contrastare il buio della retorica. Inshallah è infatti un lavoro accurato che ricostituisce, scatto dopo scatto, una sorta di mosaico grazie al quale è possibile percepire i silenzi, le atmosfere, i gesti e le ritualità che scandiscono la quotidianità delle comunità cristiane che punteggiano il Medio Oriente. La ricchezza dei dettagli significativi è impressionante, ogni cosa è al suo posto, e attende solo di essere colta. Con lentezza, però. La stessa lentezza calma e concentrata con cui il fotografo, presente alla mostra, si dedica a noi, accompagnando me e i miei studenti a comprendere gli aspetti umani e geografici di un territorio in cui lui ha viaggiato per più di tre anni.
Quando lo intervisto, spiega come il progetto sia stato reso possibile grazie alla commissione per alcune riviste francesi e italiane e che riguarda una minoranza cristiana che vive da circa 2000 anni in Medio Oriente.
Il tentativo è stato quello di raccontare ciò che emerge al centro dei vari conflitti di questi ultimi anni, all’interno dei mussulmani stessi, all’interno della geopolitica internazionale tra Russi e Americani, e tra cristiani e mussulmani. “Mi preme dirvi fin d’ora che si tratta di cristiani arabi – ha subito spiegato – cioè esistono dei cristiani arabi che hanno abitato questa terra; un po’ le nostre radici occidentali in qualche modo da un posto di vista culturale derivano da quella terra lì, pensate a Gerusalemme. Il primo paese che ho visitato è stato l’Egitto, che è il paese dove c’è circa un milione, cioè circa l’otto per cento della popolazione quindi una comunità abbastanza consistente. I cristiani in Medio Oriente sono divisi in vari tipi di chiese, in Italia la maggior parte sono cattolici con un papa di riferimento che in questo momento è papa Francesco. Bene, la chiesa orientale dopo lo scisma mantiene vari patriarchi, è come se avesse ognuna un suo papa, il Papa della chiesa egiziana quando sono andato io si chiamava Shenuda Terzo che ha la sede del suo patriarcato in Alessandria d’Egitto; il papa dei greci ortodossi si chiama Bartolomeo e ha il suo patriarcato a Istanbul, quindi ognuno ha il suo patriarca’.
Mentre lui parla e continua a spiegare mi colpisce l’immagine di un quartiere nella periferia del Cairo abitato solo da Cristiani copti ortodossi; su un’altra parete invece c’è la chiesa più grande di tutto il Medio Oriente e tutta la popolazione di questo quartiere che si chiama Zebelin generalmente raccoglie lì l’immondizia prodotta dalla gente del villaggio e poi la ricicla ‘…questo per dirvi – prosegue il fotografo – che generalmente i cristiani in Medio Oriente, essendo una minoranza, rivestono occupazioni generalmente basse, a loro vengono lasciati lavori come i netturbini e lavori meno nobili…’
Vado avanti e prende lo sguardo un’ altra foto fatta sul fiume Giordano, al confine tra Palestina e Giordania, il luogo in cui i Cristiani credono sia stato battezzato Gesù. Tutto il progetto ha questa duplice ricerca: in parte la comunità, i riti e i simboli del Cristianesimo e in parte i luoghi e il territorio che queste comunità hanno abitato per 2000 anni.
A questo punto Michele Borzoni suggerisce ai ragazzi tre livelli di lettura: ‘Il primo – dice – è la composizione, cioè come le immagini stanno all’interno di una cornice, il secondo è la luce che serve a rendere lo spazio tridimensionale, e infine il racconto. ‘Ecco – conclude – quando questi tre elementi dialogano tra loro in maniera sinergica viene fuori una buona foto. Poi naturalmente c’è la percezione di ognuno. Io non volevo imboccare il lettore e raccontargli dove guardare; per me è importante provare a fargli vedere delle cose che non comprende. Qui c’è per esempio la Chiesa di san Michele dove viene celebrata una messa da mezzanotte all’alba e allora tutti i credenti si stolgono le scarpe prima di entrare in chiesa (esattamente come fanno i mussulmani) perché evidentemente la strada è sporca e quindi per non sporcare la chiesa, o la casa, ci si toglie le scarpe. Questo sta a sottolineare che tutte le comunità alla fine vivono della stessa cultura, la cultura araba appunto. E poi vedete una serie di immagini che più che evocare la presenza di una comunità raccontano un’assenza. Forse la cosa più complicata nella fotografia é proprio questo riprendere un qualcosa che non esiste!’.
Procedo ancora per conto mio, in una sala adiacente, e qui resto colpita da una chiesa millenaria che si trova in Turchia, la Turchia anatolica, quella più orientale al confine con la Siria che è stata completamente svuotata dai cristiani che l’abitavano all’inizio del ‘900 a partire dal genocidio armeno. Di questo edificio rimangono solo le pareti. Nell’altra sala un capo cerca di tramandare l’insegnamento cristiano ai suoi figli; loro parlano una lingua, l’aramaico, che si parlava ai tempi di Gesù e che si vede nel dipinto dell’ultima cena, una lingua che si parlava duemila anni fa. Sono emozionata, c’è un senso mistico e sacro di non scarsa portata in ogni immagine, una potenza che arriva dalla pulizia netta di ogni cosa che vedo. Niente orpelli, nessuna costruzione. Molto autentico.
Gli chiedo allora come sia nato questo suo interesse per il progetto.
‘…è nato casualmente quando era in Pakistan alla fine del 2010, e sono rimasto fermo lì per ottenere un permesso per entrare in Kashmir, ma il permesso non è mai arrivato, e ho trascorso un mese girando inutilmente per gli uffici dei burocrati pakistani. Quando ho capito che questo permesso non l’avrei mai ottenuto ha cercato di raccontare una storia per quel poco di tempo che mi restava in Pakistan, che era anche il periodo in cui si succedettero degli attacchi a questa piccola comunità cristiana in Kalabagh all’interno di una maggioranza mussulmana; fu allora che pensai potesse essere interessante raccontare il Medio Oriente, cioè la Terra Santa per chi crede in Cristo e nella storia che ha percorso quelle terre, da un punto di vista differente’.
Le comunità cristiane in Medio Oriente affrontano notevoli problematiche in questo contesto geopolitico complicato con il fondamentalismo islamico. Il viaggio di Michele Borzoni ha percorso tutto il Medio Oriente dal Kurdistan turco fino all’Egitto, ad eccezione della Siria perché non ha ritenuto sicuro andarci per raccontare questa storia. Persistono molte differenze in vari paesi del Medio Oriente spiega Borzoni: ‘In Giordania per esempio, dove c’è forte rispetto reciproco tra le due comunità, pur essendo la comunità giordana poco numerosa, tanto è vero che nelle festività sia dell’Islam che Cristiane i membri delle famiglie si scambiano visite a Pasqua o durante le festività. Mentre invece in altri paesi ho incontrato più conflitto tra islam e cristianità e questo mi è capitato in Iraq, ma forse perché lì si trattava più di un tutti contro tutti, sciiti e sunniti… una volta che tutti i dittatori sono caduti, e che a modo loro garantivano una specie di protezione alle minoranze, in qualche modo i cristiani sotto Saddam, Gheddafi, Bashar Assad riuscivano a sopravvivere ed erano quasi alleati alle forze governative; quando le forze sono cadute gli è mancata questa protezione e si sono ricreati i conflitti. Quindi in sintesi posso dire che sì ci sono molte differenze di luogo in luogo, ma anche tanti casi di integrazione e di rispetto reciproco.’
La visita volge al termine e mentre ripasso le immagini ripercorrendo il tragitto a ritroso penso alla forte complementarietà tra antropologia e morfologia visuale che le attraversa. Tutto il lavoro di Michele Borzoni dà priorità al paesaggio piuttosto che al ritratto, o comunque ad un tipo di ritratto molto ambientato che si riferisce più al paesaggio. ‘Per me tutto è complementare – dichiara – è come se fossero aspetti complementari. Io volevo raccontare soprattutto la terra e i luoghi perché per le comunità cristiana quella è una terra sacra.’
Si apprezza il suo approccio che è documentaristico ma anche riflessivo. In realtà sembra che lui lasci libertà interpretativa allo spettatore ma di fatto è una libertà solo apparente. Si riconosce piuttosto una precisa regia e una scelta molto attenta ai soggetti, alle prospettive e soprattutto alla luce, come sottolineavo all’inizio. Da tutti i suoi scatti emerge disciplina di sguardo rispetto a prospettiva e luci. ‘Io non volevo luci molto forti (tipiche del Medio Oriente) per cui scattavo solo all’alba o al tramonto. I ritratti che ho fatto sono molto rigorosi perché mi interessa conservare una sorta di distanza dal soggetto. Non volevo infatti raccontare questa storia con spirito missionario, (spesso i cristiani in Medio Oriente sono stati raccontati dall’occidente atteggiando quel mondo). Io ho fatto un passo indietro tentando di non prendere parti.’ Chapeau Michele Borzoni, ci sei riuscito!
La cosa più interessante di tutto questo progetto è infatti il racconto riflessivo del contesto, e lo sguardo, ricco di un’apertura interessante su come si può intendere, vivere ed esercitare la spiritualità. Di questo tipo di storie siamo sommersi, qui ci viene offerta una visione altra. Anche quel tirare fuori la quotidianità, per dare un segnale di realtà, non solo di guerra, nonostante la condizione dei cristiani non sia facile né gestibile, e molti scappino.
Una considerazione preziosa di fotogiornalismo su cui riflettere.