MATTEO BRIGHENTI | L’altro è incontro e l’incontro è rivelazione. La verità su chi siamo è radicata dentro di noi. Soltanto che, da soli, non la vediamo per intero, ce la figuriamo, ma non la conosciamo per davvero.
È come la nostra immagine: ha bisogno di uno specchio per mostrarsi per quella che realmente è. Non a caso riflettere significa specchiare, tanto quanto rivelare e pensare. Questa “riflessione”, portata alle estreme conseguenze, si gioca il rischio di mettere in crisi la nostra visione delle cose, finanche chi ci aspettiamo di essere, come accadde in Dialoghi di profughi dei Chille de la Balanza, da Bertolt Brecht, e in Uomini da poco di Hans Petter Blad, diretto da Marco Di Costanzo.
La famiglia è un teatro di voci che ti rincorrono ovunque scappi. Un tavolino e un boccale da birra, un foglio e una penna, sono l’unico tempo per sé che Brecht strappa alle sue donne, le compagne di vita, d’arte e di fuga dalla Germania nazista. Danimarca, Svezia e ora, prima degli Stati Uniti, Finlandia. Dialoghi di profughi inizia qui, nella terza tappa di questo esilio, ambientata nel Padiglione 16, ex manicomio di San Salvi, a Firenze.
Si accende e si spegne tutto il disegno luci. Una presentazione per bagliori che danno spazio, concretezza alla presenza umbratile (sentiamo unicamente le voci registrate) della moglie e attrice Helene Weigel, della dolce collaboratrice e innamorata Margarete Steffin, di Ruth Berlau, attrice e regista danese conosciuta a Copenaghen, ben presto sua appassionata amante.
Sono lampi che cercano, forse, di tenere lontana la realtà, alla stregua dei tentativi degli Scalognati con la Compagnia della Contessa, in apertura dei Giganti della montagna di Luigi Pirandello. Non ci riescono: è impossibile. Del resto, l’autore è una delle parti in commedia: Claudio Ascoli incarna Bertolt Brecht che ha appena scritto Madre Coraggio e si trova nel periodo di massima maturità e fecondità artistica.
Ascoli, però, ha anche curato, con Sissi Abbondanza, la scrittura scenica dello spettacolo. Inoltre, coloro che si propongono per i ruoli dello scienziato Ziffel e dell’operaio Kalle, rispettivamente Matteo Pecorini e Rosario Terrone, si dichiarano e sono due attori di un altro lavoro brechtiano dei Chille, Teste tonde e teste a punta.
Questa “realtà di finzione” al cubo è un espediente da teatro nel teatro. E, a ben vedere, qualcosa in più: permette di riunire, fin dalla struttura drammaturgica, la pratica di palcoscenico con la speculazione teorica, per come enunciata nel Discorso agli attori danesi sull’arte dell’osservazione da Brecht stesso in scena: «La vostra preparazione deve cominciare in mezzo agli uomini vivi. […] Gli estranei [osservati] come se fossero conoscenti, ma i conoscenti come fossero estranei».
La teoria, in tal caso, è la prassi, e viceversa. Così, l’intellettuale e l’illetterato, da direzioni opposte come i baffi curati dell’uno e la barba incolta dell’altro, discutono di ordine, scuola, cultura, guerra, dittatura, in ottima sintonia. La partitura dei gesti quasi espressionisti di Pecorini e Terrone, asciutti e stranianti, costruisce situazioni che paiono saltare fuori dal vivo e dal vero della mente del drammaturgo/regista Bertolt Brecht/Claudio Ascoli. L’autore è presente tra noi, in senso stretto e lato: le sue parole sono attuali oggi come non mai.
Il colloquio serratissimo, amaro ed esilarante, ribalta i punti di vista dominanti, rovescia i rassicuranti luoghi comuni. Dagli uomini e dai loro passaporti passano a parlare dello Stato, dei lager, del Führer, entrato in politica per sfuggire alla bancarotta, alla stregua di un Silvio Berlusconi qualsiasi. Dialoghi di profughi tocca con mano inventiva e raffinata una rete di piccoli burocrati dell’orrore che si nascondono dietro l’apparato, per gestire quel caos che loro stessi alimentano, grazie alla paura.
Ziffel e Kalle, infine, si consegnano alla notte, al buio del disgusto ed escono di scena. Alcuni ombrelli, poco prima, erano capovolti, ribaltati, al pari delle opinioni espresse sin qui: l’acqua, per così dire, non viene da sopra, ma da sotto, il pericolo da cui dobbiamo proteggerci non è sovrannaturale, è umano. Fermo al largo delle coste d’America e della libertà, in una chiusura che è un ritorno alle contraddizioni della realtà (è la cifra dei Chille de la Balanza), Brecht pare vedere davanti a sé quanto scrive ne Le storie del Signor Keuner: «Tutto può migliorare […] salvo l’uomo».
Dal canto loro, gli Uomini da poco di Hans Petter Blad, scrittore, poeta e romanziere norvegese rappresentato per la prima volta in Italia al Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino, Firenze, per Intercity Oslo II, tentano di migliorarsi, di elevarsi dalla loro ordinaria umanità. Inseguono una “resurrezione” con tutti i crismi, cioè attraverso il sacrificio e l’omicidio, che non sarebbe dispiaciuto al Thomas De Quincey del saggio L’assassinio come una delle belle arti. È una prospettiva di glaciale violenza, di cui la regia, rigorosa e compassionevole, di Marco Di Costanzo (il direttore artistico del Teatro dell’Elce) vorrebbe svelare l’essenza profonda: insegnare a scegliere consapevolmente, assumendosi le proprie responsabilità.
Gregers e Thomas, rispettivamente Domenico Cucinotta e Roberto Caccavo, sono amici d’infanzia. Uno è un avvocato rampante, uno “yuppie” il cui passatempo è litigare per farsi picchiare; l’altro è uno scrittore e un marito esemplare. La vicenda comincia proprio nel momento in cui questa esemplarità è o sembra incrinata: Thomas, forse, ha ucciso una ragazza. Non sa, né si capisce bene, se prima, durante o dopo un atto sessuale.
Comunque, successo o meno il delitto lui ha preso il suo ombrello ed è uscito di casa. Quando compare da Gregers, l’ombrello è chiuso, a differenza di quelli di Ziffel e Kalle: ciò rappresenta l’agire nell’automatico, cieco rispetto della norma, di quello che si deve fare (ripararsi dall’acqua quando piove), senza pensare a quello che si è appena fatto.
L’amico lo accoglie sdraiato in una vasca, rialzata su una pedana e circondata da una tenda bianca. Quel bagno è inizio e fine del dramma e, quindi, è centrale nella scena. È il Getsemani, il Calvario e il Santo Sepolcro: qui i due cercheranno il corpo della ragazza e laveranno la colpa di essere poca cosa.
Qua sopra, però, salgono anche per evocare la partecipazione a una manifestazione. Lo scrittore ci viene trascinato dall’avvocato. È una specie di rito di passaggio. L’intento è fargli acquistare una presenza attiva di fronte alla comunità, un ruolo in pubblico che gli serva per cominciare ad apprezzarsi e che lo porti, poi, a superare se stesso.
Una vertigine, una febbre sottile e persistente li agita su quella specie di palcoscenico nel palcoscenico. Paiono divinità del nulla, marionette in cravatta e papillon strette in una specie di edicola votiva. A sinistra, difatti, c’è un inginocchiatoio in legno, che funge pure da guardaroba. I vestiti sono la nostra preghiera quotidiana per ottenere la grazia dell’apparenza: la riconoscibilità.
C’è qualcosa, non si vede, ma si sente: un mistero che passa dalla rivincita sul mondo del Gregers di un esuberante Cucinotta. Thomas da copione, diciamo, è la faccia apatica e spaventata della medaglia. Eppure, Caccavo è fin troppo in balia del compagno di scena. Soffre la sua intraprendenza e la sua vivacità al punto che sembra preferisca ammirarle nell’altro, invece che imparare a farle proprie, per metterle in atto da sé. Probabilmente, non si sente all’altezza. Questo mina alla base l’equilibrio e, di conseguenza, la riuscita di Uomini da poco, soprattutto quando l’ironia sfuma in sarcasmo e la leggerezza scolora in durezza.
In definitiva, la rinascita da oppresso a oppressore dell’uomo comune e ordinario ha poco o niente della presa di coscienza. Assomiglia, piuttosto, a una liberazione subita, eteroguidata. Alla lunga, perfino il dialogo dà l’impressione di non bastare più per essere vivi come personaggi e presenti come attori su questo palco.
È identificato come tale, è metateatro al pari di Dialoghi di profughi. Oltre alla tenda bianca intorno alla vasca (l’innocenza destinata a perdersi), un secondo sipario rosso sangue indica la casa di Thomas, mentre dei tendaggi neri ricoprono la sala. Chissà che la risata finale di Gregers non voglia riconoscere proprio che è tutta una finta, una recita.
Il crimine, ossia, fuor di metafora, l’azione decisa, risoluta, può colorarsi sulla scena, ma ciò che ci appartiene di natura è il lutto per le nostre aspirazioni tradite.
DIALOGHI DI PROFUGHI
da Bertolt Brecht
con Rosario Terrone e Matteo Pecorini
e con la partecipazione di Claudio Ascoli
scrittura scenica Claudio Ascoli e Sissi Abbondanza
scene Sissi Abbondanza, Renato Esposito, Paolo Lauri
tecnico luci e suoni Gabriele Ramazzotti
musiche originali Alessio Rinaldi
voci Vania Mattioli Helene Weigel, Chiara Zavattaro Margarete Steffin, Beatrice Massaro Ruth Berlau
produzione Chille de la Balanza
Prima Assoluta
Padiglione 16, ex manicomio di San Salvi, Firenze
1 settembre 2019
UOMINI DA POCO
di Hans Petter Blad
diretto da Marco Di Costanzo
con Roberto Caccavo e Domenico Cucinotta
traduzione Cristina Falcinella
assistente alla regia Carolina Pezzini
produzione Intercity Oslo II
Prima Assoluta
Teatro della Limonaia, Sesto Fiorentino, Firenze
5 ottobre 2019