ILENA AMBROSIO| La frase d’amore più vera, l’unica è: “Hai mangiato?”.
Sento profondamente mia questa convinzione di Elsa Morante – riportata in una dichiarazione della nipote Laura. Sarà che il ricordo di mia nonna che, mentre ero in viaggio per tornare a casa da universitaria fuori sede, già mi chiedeva cosa avrei voluto mangiare al pranzo della domenica, mi colma ancora oggi di un affetto che ha il calore di un abbraccio. Di certo quella convinzione è anche di Michele Pagano che ha riproposto nel suo Officina Teatro di San Leucio Di bene mi vuole – la favola bella.
Una favola, perché a volte anche la realtà può custodire un incanto; bella come lo sono – fuori dal trito luogo comune – i gesti piccoli e semplici che fanno l’amore. Piccola – non anagraficamente – e semplice è la sua protagonista e semplice è il luogo in cui vive.
Una casetta di cui la scena ritaglia la cucina: una pentola sul fuoco, mestoli e utensili vari, una piantina di basilico, fogli con ricette alla parete, l’immagine di una Madonna. Al centro un tavolo, due sedie. Un luogo qualunque ma eletto a proprio regno, e forse anche a rassicurante zona di comfort, da Rosaria. Una donna di abbondante mezza età che troviamo danzare ai fornelli e spaventarsi poi a morte per l’ingresso del vicino – come è possibile che abbia lasciato la porta aperta? – attratto da un profumo, quello della sua Genovese.
L’inaspettato (e da immaginare) interlocutore, improvvisa porta su una realtà esterna poco frequentata, offre a Rosaria l’occasione di raccontare, in un gustoso accento barese, il suo micromondo fatto di profumi, sapori, di ricette e tempi di cottura; rituali quotidiani ma di quella quotidianità che non è monotona abitudine, bensì cura assidua e continuata, la prova più vera dell’amore per il suo adorato marito, Luciano. Un amore che è sacrificio se tiene svegli per pensare a nuove ricette, e se un pizzico di tristezza è l’ingrediente fondamentale per farla venire bene la sua meravigliosa Genovese.
Certo, Luciano è di poche parole, racconta Rosaria, non si sbilancia, ma l’espressione di gioia di fronte a quel piatto di pasta, gli occhi che si illuminano chiedendone ancora «altro che parole, sono un romanzo!».
Rosaria è tutta amore, tutta totale devozione al suo Luciano. Patrizia Bertè dà vita a un personaggio di una tenerezza disarmante, mai smielato o inutilmente patetico. I sorrisi sono quelli puliti e veri che vediamo sui volti dei bambini, la leggiadra dimestichezza con gli utensili della cucina quella che cogliamo nei gesti delle nonne, delle mamme (vade retro buste di insalata già lavata e lasagne surgelate!), quella che riporta la mente alle cose che formano il significato esteso della parola ‘casa’.
Eppure un’aura di melanconia circonda questa donna, che alla dolcezza della sua totale e incondizionata generosità conferisce un retrogusto lievemente amaro di tristezza. La paura di lasciare la porta aperta, di aver sbagliato lampadina – le sbaglia sempre! – i continui «Ho fatto bene Lucia’?» ne completano il ritratto con le sfumature della fragilità, dell’insicurezza.
Così quando l’attrice passa nel ruolo di Luciano, il suo tono duro, quasi “professionale”, l’italiano perfetto, le movenze “da uomo” creano uno scarto – forse eccessivo – con il calore emanato da Rosaria. Persino la passione per i manicaretti della moglie – quella di cui Rosaria è convinta almeno – sembra solo un sincero ma non più di tanto entusiastico apprezzamento. Confonde un po’ questo personaggio; probabilmente il tono e l’atteggiamento – certamente affettati nel corpo di una donna –, ancor più che le parole dette, lasciano intuire un secondo livello narrativo, un secondo punto di vista che non viene approfondito e che, d’altronde, non conduce a sviluppi drammaturgici.
Anzi, proprio il racconto della ragazza con in mano il basilico di cui si era innamorato da ragazzo, il dono inaspettato di un paio di orecchini, l’abbraccio finale (una figura maschile al buio dà corpo a Luciano) ci rasserenano, scacciando l’idea che quell’uomo possa essere in qualche modo indegno dell’amore totale di Rosaria.
Uno scollamento drammaturgico che però non intacca il sentimento di completa “sazietà” donatoci da Rosaria, la distensione offerta da una storia umile quanto umana, raccontata con sincera generosità. Una storia che è un dono, quello di sentire ancora un affetto che ha il calore di un abbraccio.
DI BENE MI VUOLE
drammaturgia e regia Michele Pagano
con Patrizia Bertè
aiuto regia Maria Macri
costumi Pina Raucci
realizzazione scene Alpa
Officina Teatro, San Leucio (CE)
27 ottobre 2019