LAURA NOVELLI | Chi siamo mentre aspettiamo qualcuno o qualcosa? Dove finisce la nostra identità nel tempo sfibrante dell’attesa? Dove possono trovare riparo le ombre, i dubbi, le angosce che ci attagliano in quel “mentre” che ci toglie il respiro, ci tiene sospesi, ci occupa ogni spazio, ogni luogo? Come reggere a quel dolore che si fa strada dentro di noi e diventa noi? Persino la memoria vacilla nel ripensare a quel vuoto in cui ogni attesa dolorosa risucchia sentimenti e stati d’animo.
Ruota intorno a questa tematica straordinariamente universale il crepuscolare assolo che Elena Arvigo, interprete e regista, ha tratto da alcune delle pagine più autobiografiche e sofferte di Marguerite Duras confluite, insieme con brani attinti a L’Istruttoria di Peter Weiss, in un testo dalla tessitura tragica: Il Dolore: diari della guerra. Un lavoro che sa azionare corde profondamente intime e al contempo registri storici, ricordi personali e memorie collettive, paesaggi emotivi femminili e tremori propri di ogni essere umano. Parole cui si intreccia qui una partitura fisica di gesti, piccoli movimenti, vacillamenti e ripetizioni capace di sovrascrivere il registro fabulatorio con un’energia che allontana il dire/ricordare dalla scrittura letteraria – pure superba – per regalargli una danza che è di per sé linguaggio teatrale allo stato puro.
Una donna cammina in penombra. La circondano poltrone, sedie, tavolini in stile liberty coperti di libri, riviste, fogli, lampade, un telefono nero. Oggetti affastellati che rimandano l’immagine di un appartamento degli anni ’40 dall’eleganza trascurata, dove le luci ocra delle prime scene (le firma Paolo Meglio) scavano un’oscurità tutta interiore. Arvigo/Duras – abito scuro, scarpe basse, soprabito e sigarette fumate senza sosta – ha in mano dei quaderni di pelle nera. Li apre, li sfoglia. Si concede alla loro lettura con la commozione di chi inghiotte il proprio passato per ritrovarcisi o, viceversa, per rivedersi smarriti. Pagine e pagine di appunti disordinati ma lucidi, scritti con una grafia minuta, regolare. Risalgono ai giorni in cui – siamo nell’aprile del ’45 – la scrittrice aspettava il ritorno del marito, Robert Antelme, dal campo di Dachau, dove l’uomo era stato internato un anno prima a seguito della sua attività partigiana.
Il campo è stato liberato. Parigi stessa è stata liberata. La Germania è caduta. Ma di Robert non si sa nulla. L’attesa dell’altro è peggio della morte. Poco a poco questo smarrimento doloroso – condiviso con l’amico e amante Dyonis – prende il sopravvento, mangia i giorni, monopolizza ogni azione, ogni pensiero.
L’attrice ne accondiscende le pieghe più acri mostrando il suo essere – appunto – attrice prima che donna. Cade. Si rialza. Ricade. Sistema oggetti e carte con ripetuta perizia. Rompe piatti. Ne raccoglie i pezzi. Infila e sfila il cappotto più volte come in un sussulto di incertezza asfissiante. Alterna la lettura dei diari con momenti di alta recitazione. Gli occhi lucidi. Poi velati. La voce profonda. Poi altisonante. Il corpo inerme. Poi vibrante.
C’è qualcosa di antico, di tragico, nel suo volto, nei suoi movimenti, nel suo dire. Eppure questo afflato tragico assume la fisionomia straniata di una modernità a noi vicina. Qualcosa di Le Troiane e dell’Ecuba di Euripide risuona inevitabilmente. Perché la guerra non è solo un fatto di uomini. Riguarda il destino di tante donne. Di tante mogli, madri, amanti, sorelle in attesa di un ritorno. Forse, in alcuni momenti della pièce, la ripetitività della partitura fisica può sembrare un codice espressivo che affatica la fruizione. Ma serve a controbilanciare la portata storica del testo: mentre Marguerite si decompone, la seconda guerra mondiale finisce. I pochi sopravvissuti ai campi di sterminio tornano a casa. L’orrore è ancora una volta sotto gli occhi di tutti. La libertà è una chimera vicina.
Sta, infatti, proprio nel continuo ondeggiamento tra vicenda privata e Storia la forza di questo lavoro, già passato mesi fa per Roma in forma di studio (al Teatro Torlonia) e ora decisamente maturo, soprattutto sotto il profilo interpretativo e drammaturgico. Lavoro con cui Arvigo prosegue la sua personale ricerca nel femminile (basti citare titoli quali, tra gli altri, 4.48 Psychosis, La metafisica della bellezza – lettere dalle case chiuse, Monologhi dell’Atomica) e, tanto più, sul femminile in relazione alle sofferenze inflitte alle donne dalla realtà storica e sociale.
In questo Il Dolore l’artista genovese si conferma insomma una teatrante talentuosa e coraggiosa: ci offre una lettura del tutto personale dell’omonimo romanzo che la Duras pubblicò solo nell’85 (a quarant’anni di distanza dai fatti qui raccontati) e di cui ricordiamo la trasposizione teatrale che nel 2010 vide Mariangela Melata impegnata in una delle sue ultime, magistrali interpretazioni. Lettura, quella di Arvigo, supportata da una regia che adotta la lentezza dell’attesa a sua cifra stilistica, scegliendo la non facile strada di un espressionismo sfumato, leggero, sensibile, a tratti forse ancora poco coeso. Ma capace comunque dii inchiodarci all’ineluttabilità di una vicenda umana ancestrale.
L’attrice ad un certo punto distribuisce al pubblico foto dei soldati al fronte, di ragazzi, uomini, partiti per la guerra. In un altro momento ella passeggia per Parigi. La scena si illumina di una luce chiara, primaverile, ariosa. Marguerite cerca notizie di Robert. Ma gli spettatori sanno che in fondo ella cerca se stessa. E l’epilogo, altrettanto doloroso quanto la lunga attesa che lo ha preceduto, ne è una chiara, drammatica, imprevedibile dimostrazione.
IL DOLORE: DIARI DELLA GUERRA
tratto da Il Dolore e Quaderni della guerra e altri testi di Marguerite Duras e da L’istruttoria di Peter Weiss
regia Elena Arvigo
con Elena Arvigo
regista collaboratrice Virginia Franchi
assistente alla regia Tullia Attina
disegno luci Paolo Meglio
foto Manuela Giusto
produzione Santarita Teatro e Teatro Out Off
Teatro Argot , Roma
30 ottobre/3 novembre
Video dello spettacolo
https://www.youtube.com/watch?v=wO4f0SeBGcA&feature=youtu.be
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