ANTONIO CRETELLA | Venezia colpita dalla più grande ondata di acqua alta da decenni chiede lo stato di calamità naturale. Una definizione impropria, ormai, quella di “calamità naturale”, poiché di naturale nei disastri dei giorni scorsi vi è poco o nulla: le concause dell’aggravamento del già non invidiabile dissesto idrogeologico del Veneto, così come del resto d’Italia, sono per la maggior parte imputabili all’azione umana con un deleterio intreccio tra incuria e sfruttamento locali e fenomeni globali legati al cambiamento climatico. Da un lato, il territorio veneto ha subito nel corso degli ultimi decenni una progressiva subsidenza (cioè abbassamento del terreno) accelerata da discutibili interventi di sfruttamento delle falde acquifere sottostanti, dall’altro ha dovuto fronteggiare l’eustatismo marino (cambiamento del livello del mare) favorito dal riscaldamento globale e l’aumento dell’intensità degli eventi atmosferici. La sovrapposizione dei due fenomeni sfocia nel tragico risultato sotto gli occhi di tutti: la città scompare sotto una coltre d’acqua. Venezia paga lo scotto di decenni di politiche suicide sulla tutela del territorio, in buona compagnia delle altre regioni dissestate dai terremoti senza un’adeguata progettazione antisismica, quelle inondate da straripamenti fluviali per effetto di cementificazioni selvagge, quelle che franano dopo i disboscamenti, quelle che muoiono lentamente sotto cumuli di monnezza o avvelenate da Moloch industriali che offrono lavoro malpagato e maltutetalo in cambio della distruzione dell’ambiente e della salute dei cittadini. Le colpe della politica presente e passata, dato il perdurare pluridecennale dello scempio che oggi ci presenta il conto, con la sua miopia e la sua pertinace negazione dell’evidenza, sono solo una parte delle cause del disastro perpetrato: è stato ed è un problema culturale, un diffuso disinteresse per le conseguenze di uno sfruttamento senza regole del territorio unito a un’altrettanto diffusa ignoranza in materia che ha favorito il radicamento di prassi illegali e insostenibili per l’ambiente, eppure tollerate e condonate. Non calamità naturale, dunque, ma conseguenza logica, cristallinamente prevedibile di condotte dissennate.