REBECCA MOUTIER | «Questo spettacolo rinasce dalla morte di Bobò». Si apre con queste parole La Gioia di Pippo Delbono. Parole pronunciate dall’autore stesso, a quel microfono che porterà con sé lungo tutta la rappresentazione, in piedi sul proscenio di un palco spoglio, che andrà piano piano riempiendosi di figure insolite e colorate. Uno spettacolo che ha dovuto subire un drastico cambio di rotta a partire dai primi di febbraio 2019, quando Bobò, membro della compagnia da oltre vent’anni, è morto. Questo evento non ha messo fine al viaggio di La Gioia, che girava i teatri ormai da quasi un anno; al contrario, ha portato l’autore a utilizzare la grande perdita e il conseguente dolore per dare nuova vita a uno spettacolo che già a suo tempo aveva trovato modo di germogliare in un duro momento del suo personale percorso.
Di Bobò, l’uomo sordomuto e analfabeta che Delbono aveva inserito nella sua compagnia dopo averlo incontrato al manicomio di Aversa nel 1995, la presenza è quindi ancora viva e palpabile. Non lo vediamo, ma riusciamo a immaginare il suo volto, le sue movenze, i punti del palco che occupava stando in scena; fantastichiamo sui suoi gesti e sentiamo i piccoli e intensi suoni della sua voce, attraverso le registrazioni che accompagnano le parole dell’autore. Parole che guidano e sostengono l’intero spettacolo, lasciando continuamente spazio a pensieri rivolti al vecchio amico e a rimandi e aneddoti su come era stata La Gioia in quel suo primo anno di vita.

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Foto Luca Del Pia

La Gioia non è una commedia (l’autore aveva persino pensato di intitolarlo La morte gioiosa), eppure c’è allegria. Momenti di cupezza si alternano ad altri in cui non si può fare altro che sorridere e lasciarsi trascinare da un vortice di colori e personaggi unici nella loro bizzarria. Poco dopo l’inizio, Gianluca Ballarè entra in scena con un lungo abito blu e una parrucca castana e, mentre dall’alto cala una strobosfera, inizia a cantare in playback Maledetta primavera. Il pubblico ride, applaude, canta con lui, lasciandosi avvolgere da questa leggerezza che non ha niente a che fare con la superficialità. Ma subito emerge il dubbio: «Dov’è questa gioia?, si (e ci) chiede Pippo Delbono scendendo in platea.
Ecco i tanti interrogativi diretti e indiretti, celati tra le righe che l’attore recita o legge. La quarta parete non esiste, viene rotta sin dal primo momento, e l’autore e i suoi personaggi scendono dal palco, comunicano direttamente con gli spettatori, riuscendo a colpire tutti i sentimenti e gli stati d’animo che attraversano e si combinano nell’intera rappresentazione.
Non sono necessarie grandi scenografie, né tante parole da parte delle figure che popolano la scena, dando forma alle immagini che la presente voce di Pippo Delbono evoca. Un clown (ancora Gianluca Ballarè), uomini e donne del mondo del circo, ballerine; sono tutti personaggi di una realtà che l’autore confessa di aver sognato da ragazzo, quando la sua aspirazione era fare il trapezista. Ma le stesse figure diventano cupe, alternandosi sulla scena spoglia – la cui tetraggine è enfatizzata dall’intermittente illuminazione – mentre l’attore/regista ci parla di come la pazzia può diventare sgomento.

Le colorate figure attraversano e occupano il palco rispettando ritmi simili a quelli di una danza, la stessa che compiono gli occhi dello spettatore, il quale segue le evoluzioni e le azioni restando sempre in attesa delle successive. Fedele alla sua lunga esperienza teatrale, Delbono non riempie lo spazio con scenografie imponenti e complesse, ma varia i luoghi servendosi di scene metonimiche, metaforiche, simboliche ed estremamente suggestive. Spesso, a creare un effetto straniante, mutano a vista: all’interno di questo teatro non serve immergere lo spettatore in nessun tipo di falsa illusione. Persino il fondale si alza, mostrando il retro del palco, mentre si racconta il compleanno di Bobò, la cui data era un mistero ma non impediva alla compagnia di celebrarlo tutte le volte che qualcuno ne sentiva la voglia e il bisogno. Anche sulla scena, il vecchio amico viene festeggiato, tra composizioni floreali che calano dall’alto, candeline da spegnere e commozione. L’autore continua a passeggiare tra il palco e la platea, si siede in prima fila, diventa prigioniero in una gabbia, si allontana, per poi tornare sempre in primo piano, con parole a volte anche dure, ma mai fuori luogo.

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Foto Luca Del Pia

E cosa ci dice alla fine Pippo Delbono? Che la gioia non è un risultato. La gioia non deve essere pensata, deve essere sentita. La gioia scioglie i nodi. Ce ne basta una, una qualsiasi. Non serve stare sempre a rincorrerne un’altra. E per trovarla, è necessario passare attraverso il dolore, la tristezza, lo sgomento, la paura. Tutto passa e tutto torna. Tutto serve. E ogni cosa si incastra all’interno dello spettacolo che, in poco più di un’ora, rende vividi nello spettatore i sentimenti (apparentemente) più distanti. Ma che hanno bisogno gli uni degli altri per sopravvivere e che, forse, così distanti non sono mai.

La Gioia è uno spettacolo inafferrabile. Tanto presente e vero nel momento in cui accade, quanto complesso da ritrovare e ricomporre una volta chiuso il sipario. Ma quello che dona resta. Deve essere vissuto e accolto nel qui e ora.
Sarebbe stato molto bello vedere anche La Gioia di Bobò.

 

LA GIOIA

uno spettacolo di Pippo Delbono
con Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Zakria Safi, Grazia Spinella
e con la voce di Bobò
composizione floreale Thierry Boutemy
musiche di Pippo Delbono, Antoine Bataille, nicola Toscano e autori vari
luci Orlando Bolognesi
suono Pietro Tirella
costumi Elena Giampaoli
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione
coproduzioneThéâtre de Liège, Le Manège Maubeuge – Scène Nationale
Compagnia Pippo Delbono

Teatro Era, Pontedera
15 novembre 2019

La Gioia – trailer