PASQUALE PARISI | Doveva arrivare, è arrivato. Quel punto di rottura, vera pietra miliare che arriva ciclicamente a scandire la vita di ogni videogiocatore, è arrivato. La next-gen, l’arrivo di nuove piattaforme domestiche pronte a flettere i muscoli di capacità di calcolo e splendore visivo, pronte ad accompagnare l’utente in una sempre più marcata sintesi tra entertainment domestico, funzionalità cloud e dinamiche social. PS4 per Sony, Xbox One per Microsoft (solo per essere davvero generosi potremmo includere nello stesso contesto WiiU di Nintendo) hanno avuto il loro lancio, piazzato milioni di unità, creato una notevole risonanza anche nell’informazione generalista e nell’immaginario di chi non segue da vicino la materia. E, allo stesso tempo, non hanno impressionato nessuno. Per una ragione piuttosto evidente: per quanto ampie possano essere le aspirazioni, il centro di una macchina per videogames dovrebbero essere i videogames. E al lancio delle due protagoniste della nuova generazione sono stati proprio i prodotti a latitare: pochi in numero, deficitari nel canonico “wow-factor”. Per non parlare poi delle funzioni di streaming e condivisione delle proprie esperienze videoludiche, altro cavallo di battaglia delle nuove macchine. L’acume del puntare su questi aspetti risulta chiaramente dal riscontro nell’immediato: gli unici casi in cui il pubblico sembra essersi accolto di queste possibilità è stato quando qualcuno si è addormentato davanti allo schermo o ha deciso di sfruttare il potenziale voyeuristico della situazione.
La generazione di console appena arrivata non faticherà a ottenere allori: nel giro di pochi mesi cominceranno a venire scoperte le carte più interessanti delle due piattaforme, e i nuovi hardware avranno modo di dispiegarsi finalmente nel loro pieno potenziale, andando a toccare nuovi i nuovi vertici del medium. Fatto sta che, in questo momento di stasi, vorrei riservare attenzione a un mondo i cui risultati appaiono sempre sottovalutati: quello dei videogames indie, prodotti dai costi di produzione e di vendita ridotti, spesso realizzati da gruppi di autori estremamente circoscritti e, proprio per queste ragioni, più inclini alla sperimentazione rispetto a prodotti commerciali caratterizzati da esigenze ben più evidenti.
La rivoluzione degli indie si consuma di settimana in settimana, soprattutto sulla piattaforma PC (per quanto le console abbiano da tempo intuito e sfruttato le potenzialità del filone). Anche nel periodo in cui si consumava l’attesa delle nuove console, il mondo indie ha prodotto opere maestose che mostrano chiaramente quello che alla “next-gen” ancora manca: originalità, capacità di osare, nuove visioni. Gone Home è, probabilmente, il titolo indie che ha fatto più rumore nel corso del 2013. E, quanto è più strabiliante, l’ha fatto con il silenzio. Quello della casa di famiglia deserta che Kaitlin Greenbriar incontra tornando da un lungo periodo trascorso in Europa, alla metà degli anni ‘90. Madre, padre e giovane sorella sono scomparsi dall’abitazione: cosa sarà avvenuto? È quanto si tenta di scoprire nelle circa tre ore di durata dell’esperienza. C’è molto da sapere, ed è custodito dalla casa stessa: stanze, oggetti, spazi personali e condivisi sono pronti a discutere con il giocatore dei personaggi che li hanno vissuti. I pezzi delle vicende si mettono insieme lentamente, organicamente, con una progressione nemmeno eccessivamente incanalata ma comunque saldamente nelle mani degli autori, che riescono in maniera mirabile a spostare il tono del racconto dal thriller all’horror al paranormale, continuando a ingannare l’utente mentre dispongono i pezzi della rivelazione finale che è spiazzante, imprevedibile, coraggiosissima.
Gone Home dimostra quanto la narrazione interattiva possa osare, in termini sia contenutistici che formali: non ci sono cutscene né dialoghi (solo monologhi ad accompagnare ogni nuova scoperta), e la storia nasce dall’ambiente, in un una delle più brillanti manifestazioni dell’evironmental storytelling definito qualche tempo fa da Henry Jenkins. Qualcuno ha voluto sottolineare quanto poco Gone Home rientri nei confini del videogioco, per via della carenza di effettivi ostacoli da superare. Vero è che potrebbe stare più agevolmente nei confini della visual novel, ma a meno di non essere feticisti della definizione, la questione non dovrebbe essere poi essenziale. Se, poi, vogliamo interrogarci su cosa sia videogioco, impossibile non citare The Stanley Parable, una sorta d’incarnazione dei desideri più inconfessabili di ogni ludologo. Nato svariati anni fa come mod amatoriale per Half-Life 2, questo piccolo capolavoro sovversivo è giunto nel corso dell’anno a una versione commerciale in HD. Lo Stanley protagonista è uno dei tanti impiegati di una non meglio specificata azienda, contento di trascorrere le sue giornate a pigiare tasti in base agli ordini giunti sul suo computer. Peccato che, un giorno, gli ordini smettano di arrivare e Stanley sia costretto a investigare l’avvenimento.
La progressione è scandita da una straordinaria voce narrante che stimola e reagisce alle varie azioni del giocatore: lo scopo del narratore è portare a compimento una storia definita e compiuta, ma non necessariamente bisogna sottostare alle sue indicazioni. “Stanley andò a sinistra” recita il narratore: il giocatore potrebbe andare a destra. In ognuna di queste situazioni, ogni scelta può dare vita a una linea narrativa completamente diversa, l’una più surreale e metaludica dell’altra. The Stanley Parable è un esercizio di branching narrative che spoglia le strutture di base del videogioco e quanto più le espone, infrangendo a ogni istante la quarta parete, tanto più risulta coinvolgente.
Brothers: A tale of two Sons, invece, è radicalmente differente rispetto agli altri titoli citati: la trama è unica e lineare, e il percorso definite piuttosto chiaramente. È il primo progetto videoludico di Josef Fares, regista libanese naturalizzato svedese, autore, tra gli altri, di Kops e Jalla! Jalla! La mdp virtuale risente chiaramente della “mano” di cui può giovare, con una mobilità costante e assolutamente elegante, che presenta in maniera accattivante e personale il viaggio dei due protagonisti. Indicati semplicemente come Big Brother e Little Brother, i fratelli partono alla ricerca di una cura per la malattia del padre. Per quanto semplice, l’avventura dal tono fiabesco è resa efficacemente dalla sola gestualità dei personaggi, senza servirsi delle parole. Ancora più interessante è la scelta fatta in termini di sistema di controllo: ipotizzando l’uso di un joypad, i due fratelli vengono mossi contemporaneamente ma indipendentemente grazie all’uso dei due stick analogici.
La soluzione, fortemente inusuale (lo stick destro è tradizionalmente demandato alla regolazione dell’inquadratura) finisce per trasferire in forma concreta l’idea della difficoltà dell’impresa e dell’importanza della collaborazione, contribuendo al fortissimo impatto emotivo del titolo che esplode in una lunga ed incisiva sezione finale. Insomma, la next-gen ha le carte in regola per segnare il futuro, che dovrà essere di grande cambiamento, affinché il mezzo non finisca a stagnare tra le paludi del già visto. La strada giusta per raggiungerlo, tuttavia, resta quella aperta dagli indie: non resta che seguirla.
links
http://www.dualshockers.com/2013/12/23/couple-falls-asleep-while-streaming-ps4s-playroom-240-people-watch-3000-comments/
http://video.corriere.it/spoglia-moglie-alla-telecamera-ps4-bannato/60703038-586b-11e3-8914-a908d6ffa3b0