RITA CIRRINCIONE | Professore ordinario presso l’Università degli Studi di Palermo e Direttore U.O.C. di Psichiatria del Policlinico “Paolo Giaccone” dell’Università di Palermo, Daniele La Barbera è autore di svariati testi di psichiatria e di centinaia di articoli pubblicati su riviste scientifiche nazionali e internazionali. Ha diretto numerosi progetti internazionali sul rapporto tra abuso di sostanze e disturbi psichiatrici. La sua produzione accademica e la sua divulgazione scientifica sono vivaci e prolifiche e si caratterizzano per l’approccio umanistico, per la attitudine ad attingere al patrimonio mitologico e ai linguaggi artistici e a leggere i fenomeni della contemporaneità inscrivendoli nelle grandi narrazioni del nostro tempo.
La tua immagine di copertina su FB è un’opera di Edward Hopper, un autore che ha rappresentato l’uomo contemporaneo confinato in interni gelidi e metafisici che trasmettono un senso di inquietante solitudine. Rappresenta la tua condizione in tempi del lockdown? Quali risorse interne stai attivando in questo periodo?
Trovo interessante questa domanda perché mi porta a riflettere su quanto sia stato variegato e complesso il mio stato d’animo in questo tempo di pandemia. Sono una personalità introversa e tendenzialmente casalinga e mi ritengo fortunato perché da qualche anno vivo in una casa indipendente e spaziosa, su più piani, ma soprattutto con un piccolo giardino, un po’ di fiori e degli alberi. Quindi, da questo punto di vista, aria, luce, verde, un cane e quattro gatti e gli affetti familiari hanno mitigato questo confinamento obbligatorio, seppure interrotto la mattina per andare al lavoro. Inoltre, amando a dismisura libri, musica e cinema, non mi è mancato il nutrimento psichico. Certamente, come molti, tutto questo ha convissuto con forti preoccupazioni, sia per la situazione generale, sia per i rischi potenziali miei e dei miei cari, ma tutto questo – ancora non ho capito bene attraverso quali strani meccanismi – ha agito su di me procurandomi una forte attivazione “letteraria”: quasi ogni giorno ho avuto una necessità impellente di mettere per iscritto le riflessioni che questa condizione così anomala e innaturale mi andava suscitando, ho pubblicato varie cose sulla mia pagina facebook, ho scritto articoli per giornali online, ho rilasciato, come adesso, interviste scritte o in diretta. Come se una condizione così eccezionale mi rendesse più produttivo e creativo, e come se la creatività potesse rappresentare una barriera difensiva nei confronti dell’ansia. In questo periodo c’è chi la morte la esorcizza sfidandola sui tetti delle case e chi, come me, rielaborandola e trasformandola sui fogli di carta e sulle pagine web. Anche per questo mi ritengo fortunato.
Il primo motivo per cui ho pensato ad una intervista a te riguardava i tuoi studi sulle dipendenze da internet. Ti saresti aspettato che l’iper-connessione, che è stata giustamente considerata una dipendenza patologica, in questo frangente venga incoraggiata e incentivata in tutti i campi e per tutte le fasce d’età?
Sono stato, insieme ai miei collaboratori, tra i primi in Italia, negli anni ’90, non solo a mettere a fuoco i rischi psicologici collegati all’uso della Rete e dei media digitali, ma anche a indicare – un po’ profeticamente – l’enorme spazio che questi avrebbero avuto nelle nostre vite. Ma anche quando studiavo i possibili effetti negativi non ho mai dubitato per un attimo del grande potenziale evolutivo che la rivoluzione digitale poteva comportare. Pensavo, e penso tutt’ora, che questi strumenti rappresentano, se correttamente usati, una straordinaria occasione evolutiva e una spinta alla crescita umana, culturale, politica e spirituale. Vorrei anche notare che la dipendenza non ha solo un’accezione quantitativa, ma è per larga parte in rapporto all’atteggiamento mentale e al vissuto: cioè si può essere dipendenti dalla Rete collegandosi una sola ora al giorno, ma pensando tutto il tempo come fare per collegarsi ancora, e si può non esserlo usando la Rete per molte ore al giorno, come facciamo quasi tutti , ma utilizzandola in maniera sana e funzionale.
In questi giorni questi strumenti hanno letteralmente salvato la nostra vita, consentendoci di continuare a fare da casa molte delle cose che prima facevamo nei luoghi di lavoro, in ufficio, a scuola, all’università. O consentendoci di passare il tempo in maniera creativa, imparando nuove abilità e sviluppando nuove competenze. Ma continuo a essere convinto che l’uso delle tecnologie digitali, specie se protratto e continuativo, non risulti indifferente al nostro cervello, e sono sicuro che se avessimo potuto fotografare il nostro sistema nervoso centrale prima e dopo la pandemia avremmo potuto constatare come stare diverse ore al giorno chiusi a casa con soli tablet, smartphone e notebook come mezzi per “andare fuori” stia completamente riconfigurando le nostre aree cerebrali.
Della tanto discussa mascherina (quella egoista, altruista o intelligente; quella sconsigliata perché non disponibile, disponibile ma non conforme, prescritta ma introvabile) hai fatto una lettura simbolica e archetipica assimilandola al concetto di maschera. Cosa rappresenta ancora questo oggetto divenuto così presente nelle nostre vite?
Non si può negare che in pochi giorni questo oggetto sia diventato iconico, oltre a rivestire un ruolo fondamentale tra i vari DPI di cui avremmo avuto tempestivamente bisogno e che, ancora adesso, a pochi giorni dalla “riapertura”, continuano a scarseggiare. E allora, proprio partendo da questa contraddizione (purtroppo una delle tante con le quali abbiamo affrontato e gestito questa immane difficoltà) la mascherina e la condizione che essa rappresenta è come se avessero “smascherato” tutte le nostre fragilità, la precarietà delle nostre piccole esistenze individuali, continuamente sospese sul bordo dell’ignoto e dell’imprevisto che ci possono spazzare via in un attimo; ma anche la debolezza dei vertici governativi e istituzionali, dei decisori che hanno nelle mani le sorti dei popoli, che, salvo rarissime eccezioni (la Grecia, Taiwan, la Nuova Zelanda, l’Islanda e la Finlandia) hanno approcciato questa tremenda congiuntura pandemica con approssimazione, pressapochismo, incertezza, supponenza, ritardi, errori. E non credo che sia necessario ricordare chi è stato direttamente vittima della sua visione banalmente e sconsideratamente ottimista, dimostrando con la sua malattia e il suo ricovero quanto si fosse clamorosamente sbagliato. Abbiamo tutti più volte detto, specie nelle prime settimane di clausura, che questo periodo ci sembrava surreale. E sotto un certo punto di vista è così. Ma d’altra parte, e su un piano più profondo, il contagio planetario ci ha fatto duramente e inaspettatamente piombare nella realtà: dei nostri limiti, delle nostre incapacità, della nostra incompiutezza e mancanza di prudenza. Ci ha fatto bruscamente uscire dall’illusione narcisistica di potere e di successo illimitato, dalla ricerca spasmodica di bellezza e giovinezza senza fine, e ci sta obbligando a prendere contatto, per quanto doloroso, con le nostre limitazioni, con la nostra finitezza. Da questa prospettiva forse siamo nel reale di più adesso, bardati con maschere e guanti e timorosi di essere sfiorati da chicchessia, di quanto non lo fossimo due mesi fa. Naturalmente tutto questo può avere un qualche senso se riusciremo a bonificarlo con scelte adeguate e con adattamenti intelligenti e propositivi. Cosa che non sarà facile.
La portata planetaria della pandemia sta determinando un “movimento” profondo che riguarda la psiche dell’intera umanità. In passato tu ti sei occupato di “traumi globali”; cosa pensi di questo che si sta presentando in una forma così estesa e profonda?
Negli ultimi venti o trent’anni una serie di eventi – penso alla Guerra del Golfo, all’attentato alle Torri Gemelle, allo Tsunami del Natale 2004 in Indonesia, forse anche a Chernobyl e a Fukushima e, purtroppo a quello che stiamo vivendo adesso – hanno avuto la caratteristica di causare non solo traumi estesi e violenti a un grandissimo numero di persone (in Indonesia perirono 230.000 persone), ma per le loro caratteristiche “internazionali” e per l’estrema visibilità e diffusione mediatica, l’alone traumatico sembra essersi esteso indefinitamente a un numero molto maggiore di individui in tutto il mondo rispetto a quelli direttamente esposti. Sono traumi globali, traumi tipici del modo di vivere post-moderno, che io ho anche definito “traumi della visione del mondo”. Sia perché ciascuno di questi eventi drammatici è stato in grado di mettere in crisi una certa visione del mondo e della realtà e di modificare tanti aspetti della nostra vita materiale (pensiamo alle Twin Towers) ma anche perché larga parte dell’azione traumatogena è stata proprio legata all’azione dei media e al loro modo pervasivo e ripetitivo (a volte ridondante: quante volte sono cadute le Torri Gemelle alla TV?) di rappresentare quel determinato evento. Facendo anche leva su una caratteristica un po’ inquietante della nostra psiche, retaggio della vita mentale infantile: di essere spesse volte attratti da ciò che ci turba e può anche danneggiare il nostro animo.
Non c’è analisi di questo periodo in cui non si parli della categoria “tempo”: tempo sospeso, tempo distopico, tempo surreale, tempo incantato, come quello che durante gli incantesimi delle favole sospende la vita di chi ne è oggetto e scorre per gli altri creando strani disallineamenti. Che tempo è per te?
Una delle metafore più belle e poetiche su questo tema l’ho letta in una lettera di Pupi Avati, regista che ritengo impossibile non amare; paragonava questa particolare percezione del tempo a cui ti riferivi a quando da bambino a cinema, durante la proiezione di un film, improvvisamente la pellicola si strappava, il film si interrompeva, si aprivano subitaneamente le luci in sala, e Pupi allora si girava verso la mamma e, coprendosi gli occhi con la mano come a non voler interrompere la magia del film, le diceva: “Avvisami quando ricomincia”. Trovo questo esempio mirabile e quasi commovente. Perché forse sarebbe quello che tutti noi auspicheremmo in questo momento difficile, avere una mamma accanto che ci protegge e che ci dice quando possiamo riprendere il film della nostra vita, evitando che la luce troppo intensa delle stimolazioni che stiamo subendo ci ricordi cosa abbiamo perso. Ecco, questo è esattamente quello che stiamo tutti fronteggiando: uno strappo imprevisto, che per alcuni è una lacerazione insanabile, per altri porta con sé la speranza che tutto si possa riparare e la trama della nostra vita possa di nuovo dipanarsi. Penso anche che come saremo “dopo”, in certa misura dipenderà dall’uso che faremo, che stiamo facendo, di questo “tempo sospeso”, che non sia una vacatio, un tempo svuotato dall’ansia e dall’indolenza, ma pieno, direi saturo, di pensiero e di affetti positivi.
Dal 16 marzo l’U.O.C. di Psichiatria del Policlinico di Palermo da te diretta ha attivato un Ambulatorio Virtuale di Assistenza Psicologica-Psichiatrica con delle linee telefoniche dedicate al supporto psicologico per la depressione, l’ansia e altri disturbi legati all’attuale epidemia. Dopo più di un mese di attività, quali dati significativi sono emersi? Come state gestendo questa emergenza? Quali “attrezzi” suggerite?
Sono stati i miei collaboratori a suggerirmi questa iniziativa, anche in considerazione che la nostra Azienda Ospedaliera Policlinico, come tutti gli Ospedali, ha disattivato gli ambulatori per tutte le consultazioni non urgenti. E, da che ne abbiamo cominciato a parlare, l’abbiamo realizzata in un batter d’occhio. Ogni giorno dalle 8 alle 18, compreso il sabato, tre linee telefoniche (0916555654 – 5653 – 5641) e uno spazio Skype sono a disposizione, ovviamente gratuitamente, per tutti coloro che abbiano necessità di confrontarsi con uno specialista psicologo o psichiatra a causa di un disagio legato alla situazione della pandemia. Arrivano telefonate da tutta Italia, non raramente da città del Nord e ben presto questo è diventato una specie di finestra sul disagio psicologico e psicosociale ai tempi del Corona. Dagli anziani chiusi a casa senza compagnia di nessuno, che soffrono per l’impossibilità di raggiungere la loro casetta in campagna per via delle disposizioni di sicurezza, alla signora in carrozzina a rotelle che, seppure autonoma, in tempi di pandemia ha enormi difficoltà a fare la spesa al supermercato e a procurarsi i farmaci di cui ha bisogno; dal giovane studente che da quando non esce più da casa è convinto che fuori sia pieno di nemici, alla signora che non osa letteralmente mettere un piede fuori la soglia della porta da due mesi e costringe il marito e il figlio a fare lo stesso. La maggior parte delle richieste riguarda comunque stati ansiosi spesso con componenti ipocondriache e patofobiche, insonnie, reazioni depressive. Abbiamo anche gestito una crisi suicidaria di un uomo della Sicilia orientale e stiamo anche seguendo con successo una persona della Puglia che effettua settimanalmente dei regolari colloqui psicologici per un disturbo d’ansia piuttosto pervasivo. L’intervento ovviamente è sempre individualizzato, a volte può anche essere richiesto un aiuto di tipo farmacologico; quando non siamo di fronte a disagi intensi consigliamo, per affrontare al meglio la reclusione dentro le mura domestiche e la ripetitività delle giornate che si succedono sempre uguali, di coltivare il più possibile i propri interessi o di riprenderli se si erano tralasciati, di limitare al massimo il tempo passato a seguire i bollettini con le cifre dei contagi e dei morti e di evitare comunque il sovraccarico informazionale. E, quando il discorso si presta, il consiglio più importante è di ri-innamorarsi delle cose che piacevano prima, di recuperare una passione trascurata nel passato, e di supportare il più possibile i propri cari e riuscire a farsi supportare da loro. La reciprocità dell’aiuto oggi è fondamentale, e questo significa cercare di fare un lavoro su di sé che ci aiuti a essere più disponibili, tolleranti, pazienti, amorevoli. È una pratica difficile ma che ha effetti straordinari, perché migliora contemporaneamente l’ambiente in cui viviamo 24 ore su 24 ma anche il nostro ambiente interiore.
La conseguenza più evidente, trasversale e globale dell’attuale pandemia è il cambiamento: un cambiamento che ha costretto nell’immediato miliardi di persone a modificare drasticamente e repentinamente le proprie abitudini e a cui dovranno inevitabilmente seguirne altri, forse più radicali e definitivi. Pensi che l’uomo saprà cogliere questa opportunità per dare una svolta e modificare quei comportamenti che in qualche modo hanno contribuito a questo stato di cose?
Questa è davvero, dal mio punto di vista di psichiatra e ricercatore, la vera incognita, cioè come cambieremo? È una domanda da far tremare le vene e i polsi, e ha diverse prospettive: economiche, politiche, psicologiche, esistenziali. Naturalmente non basterà essere passati attraverso questo passaggio così impegnativo per uscirne rinnovati e migliorati. Non è per niente scontato, tenendo anche conto che mesi di restrizioni e di ansie hanno un effetto usurante, così come drammatico e deleterio sarà il danno economico che molte categorie – di nuovo le più fragili – dovranno subire. Inoltre sono convinto che non sia per niente facile per ogni essere umano cambiare, anche in presenza di eventi dal forte impatto psicologico. Credo che si profili un periodo di difficoltà e di rinunce per tutti, ma credo anche che, se daremo importanza ai legami sociali, alle trame affettive delle nostre esistenze, ai valori basici, se riusciremo a recuperare aspetti fondamentali della nostra umanità che abbiamo oscurato con la corsa al benessere senza fine e senza costrutto e senza riuscire ad apprezzare fino in fondo quel moltissimo che avevamo, forse potremmo gradatamente reimparare ad apprezzare quel poco che riusciremo a procurarci; è un’occasione, una sfida dall’esito incerto, ma che varrà la pena di affrontare con buona volontà e impegno, confortati dal pensiero che tutti i periodi immediatamente successivi a grandi crisi mondiali hanno visto riaffermarsi, con spinta vitale e gioia di vivere, i valori fondamentali sui quali dovrebbe poggiare ogni comunità umana. I tanti esempi di bellissima solidarietà sociale che abbiamo visto in questi giorni aprono qualche spiraglio di speranza.