MATTEO BRIGHENTI | «La reclusione di oggi mi fa un senso di vago déjà vu». Daniele Timpano sta pensando al sequestro di Aldo Moro. O meglio, al suo proprio autosequestro come Aldo Moro.
Attraverso l’esperienza di teatro no-limits Aldo morto 54, il quarantenne autore e attore romano nel 2013 si è rinchiuso da solo all’interno del Teatro dell’Orologio di Roma, rivivendo 54 giorni (16 marzo – 8 maggio) dei 55 della vera prigionia del Presidente Dc in una cella finta, connessa via webcam e social network, e andando in scena, ogni sera, con il suo caustico, documentato monologo Aldo morto – Tragedia.
Il Coronavirus sembra averci riportato indietro di 42 anni, a quel 1978, e non solo per coincidenza di calendario: la caccia a un “nemico invisibile” e la sovrapproduzione informativa sono due esempi di contatto. Quantomeno per come ricordiamo o ci hanno raccontato il rapimento dell’Onorevole Dc. «Oggi non sono soltanto io Aldo Moro», afferma Timpano a Pac, «in qualche modo siamo tutti Aldo Moro». La finzione di Aldo morto 54 si ispirava alla realtà. Adesso, pare sia la realtà a ispirarsi alla finzione.
La prima domanda, ormai, è d’obbligo. Tutti dicono che questo è un tempo sospeso. Cosa significa per te?
Siamo nel vuoto di un lutto, quello nazionale e planetario, e quello personale, cioè il nostro lavoro, il teatro, che è anche la nostra sola identità, quello che siamo, lo spazio fisico e mentale dove mettiamo da sempre tutto quel che abbiamo. Oltre che il nostro unico reddito.
Come lo stai vivendo?
Con Elvira (Frosini, la sua compagna d’arte e di vita, ndr) siamo chiusi in casa, preoccupati e responsabili, a cercare di capire come tornare presto in pubblico, a lottare per gli ammortizzatori sociali che ci spettano, da un lato, a cercare di capire le implicazioni di questa brutta situazione, mantenendo il più possibile lucidità, calma, speranza. Siamo ormai tutti in attesa. Come tanti, abbiamo deciso di non sparire dal presente, nel presente, ma anche di non fare dirette streaming casalinghe e produrre a getto continuo nuovi pensierini ossessivi-compulsivi. Abbiamo quindi occupato lo spazio vuoto del teatro con la nostalgia di un bel ricordo, attivando due percorsi a costo zero e, per noi, a guadagno zero.
Immagino ti riferisca a #Indifferita e #Teatroatradimento. Come funzionano?
#Indifferita è una piccola programmazione di “resti teatrali”, vale a dire spettacoli teatrali in video, selezionati da noi secondo un criterio, insieme, di gusto personale e di rappresentatività di una storia del teatro contemporaneo recente, in un percorso che va dal 2000 al 2020. Li lanciamo ogni giorno sui social personali e della nostra compagnia Frosini/Timpano, Istagram, Facebook, Twitter. Una cosa che, per inciso, dovrebbe fare il servizio pubblico, la RAI, non noi. Con #Teatroatradimento stiamo invece mandando via Whatsapp delle pillole di teatro travestite da messaggio vocale e registrate direttamente con il telefono, appena equalizzate un po’ per noi dal nostro collaboratore Omar Scala. Sono, almeno per ora, tutti frammenti di nostri lavori, anche inediti: ne mandiamo uno a settimana a chi abbiamo nella rubrica del telefono, ma naturalmente chi è interessato può chiederci di essere messo in rubrica. Inoltre, continuiamo con costanza il lavoro di preparazione di Ottantanove: per la prima volta saremo in scena in tre, con Marco Cavalcoli. Il debutto è previsto per il 27 ottobre al Teatro India per RomaEuropa Festival 2020. Rimane comunque molta incertezza su tutto. La costanza non basta: ci vogliono i voti alla Madonna.
Stai vivendo dunque qualcosa di simile ad Aldo morto 54?
La dimensione corporale di costrizione è la stessa. Adesso sono in poco spazio, non esco, esattamene come nel 2013. Comunque, all’epoca c’era lo sfogo serale del mio spettacolo Aldo morto – Tragedia, uno sfogo emotivo vero, un allenamento fisico vero, in un progetto che, in generale, rappresentava una sfida contro me stesso, il sistema teatrale, l’informazione sul caso Moro, la comunicazione e la nostra percezione del sequestro. Mi sentivo addosso un piccolo, egocentrico, eroismo donchisciottesco, mentre ora c’è soltanto la frustrazione corporale e psicologica di stare in una condizione forzata di isolamento. Il fatto che sia condivisa con tutti gli altri mi fa tanta tenerezza, ma non mi aiuta particolarmente.
Aldo morto 54 aveva un calendario fissato. L’attualità era scandita dalla storia: ciò che era successo ad Aldo Moro si rispecchiava e deformava in ciò che succedeva a te. Il fatto che tu adesso, a differenza di allora, non sappia quando l’emergenza Coronavirus finirà, ti ha fatto scoprire qualcosa della prigionia del Presidente Dc che non avevi capito prima?
Allora, se vogliamo fare questa controproiezione, è chiaro risponderti di sì. Non suppongo di morire, a differenza, forse, di Moro. Comunque, neanche lui sapeva tutto quello che succedeva fuori dalla “prigione del popolo”, leggeva soltanto le notizie che gli facevano arrivare i suoi sequestratori. Ora noi possiamo leggere, cercare, sapere tutto: siamo affogati di notizie, di opinioni, di posizioni isteriche pro o contro qualsiasi cosa. Questo ci dà un’idea, credo, di libertà personale almeno nel gestire il nostro informarci sui fatti. Però, a un livello più sottile, non è che non ci siano forme di controllo pure oggi, basti pensare ai famosi algoritmi. Non veniamo da una libertà assoluta prima di questa reclusione, veniamo piuttosto da una condizione in cui più o meno ci accontentiamo di prendere piccole decisioni sul privato delle nostre vite di cittadini consumatori. In realtà, siamo tutti controllati, ripresi, schedati: i nostri dati personali sono dappertutto.
C’era più verità allora che era tutto falso o c’è più finzione ora che è tutto vero?
Aldo morto 54 e in generale tutti i nostri spettacoli parlano dell’identità, nostra e del nostro Paese, partendo dalle scorie del passato e da tutta una serie di cliché narrativi che permeano la narrazione del ricordo, a volte con una loro strumentalità voluta. Qui siamo nel presente dell’instant happening, della cosa appena successa, dell’ultimo secondo, del trending topic del giorno. Senza una distanza, non soltanto critica, ma temporale proprio, non ti puoi tanto districare, ti puoi solo ossessionare, secondo me. Il futuro dietro il sipario che non apriamo, se vogliamo citare un altro nostro spettacolo, Zombitudine (qui la recensione su Pac, ndr), l’orizzonte dietro questa cortina chiusa da cui proviamo a spiare tutti i giorni – cosa succederà? quando finirà? come sarà il dopo? – è una proiezione ansiogena che ci allontana ancora di più da un assestamento della nostra identità al momento.
Ci sveglieremo una mattina tutti zombi?
In verità, nello spettacolo il concetto di zombi ha una sfumatura anche ambiguamente positiva. Comunque, diversamente da noi in questi giorni, lo zombi per lo più cammina all’aria aperta, va in giro abbastanza tranquillo, anche rispetto al concetto di pandemia, perché ormai ne è il “prodotto”, e quindi non ci pensa più. Noi siamo più nella fase del non esser usciti ancora dalla bara. Sto scherzando, naturalmente. Sono consapevole della situazione emergenziale, tuttavia credo che questo non possa essere l’unico argomento di discussione, una cosa che zittisca qualunque ragionamento.
Un altro tema è la paura. Probabilmente nella finta cella dentro l’Orologio non ne avevi. Adesso ne hai?
No, non ce l’avevo. Avevo preoccupazione per cose mie, che ci fosse gente la sera allo spettacolo, di farcela con le energie, di non ammalarmi, ma non certo paura. Tutto sommato è vero che non ce l’ho nemmeno adesso. In questo momento ho più fastidio, insofferenza, frustrazione, rabbia per il lavoro. Non sono solo i soldi, sono anche i soldi, ma soprattutto, come ho detto prima, il teatro è la nostra identità, la nostra vita. Quasi non hai un motivo di pensare o di leggere un libro, se non stai lavorando. La paura personale, ripeto, non c’è in questo momento: c’è il senso di responsabilità e l’apprensione per le sorti di questo Paese, sia dal punto di vista sanitario, che dal punto di vista economico.
Ti sentivi più solo allora?
Sicuramente sono più solo adesso. Ho la giornata impegnata in cose che sono decorazione, però, di un tempo vuoto, non sono i tasselli di qualcosa di cui tu hai responsabilità e che consumi, sfoghi mentre la stai facendo. La tensione e tutte le cose che mi attraversavano nel 2013 diventavano qualcosa, mentre in questo momento non stanno diventando niente. Il “senso civico” fa a botte con la crescente misantropia per il mondo. Comincio a odiare chiunque dica, scriva qualunque cosa, me compreso, ma non posso farne a meno: questo, se vogliamo, amplifica il senso di solitudine. Però, ed è una contraddizione, ho uno slancio verso chi sento, una piccola scintilla che mi dà gioia. Sto parlando con te e mi fa piacere, per dire.
L’esperienza di quella reclusione ti è di aiuto in questa?
No, non credo. Però, durante Aldo morto 54 ho preso una malattia che “deploro” – bella parola, l’avrebbe usata Aldo Moro – in me stesso e negli altri: l’iperconnessione. Prima non avevo nemmeno lo smartphone, tutta una serie di cose non le facevo a tamburo battente come pensiero di comunicazione, per esempio, del nostro contatto con il mondo. Appena uscito di cella, l’ho comprato e ho proseguito a fare in forma diversa quello che facevo all’Orologio, al punto che, nel nostro piccolo mondino del teatro, come Frosini/Timpano nel 2019 siamo arrivati in finale al Premio Rete Critica per la comunicazione. L’attuale condizione incoraggia a stare connessi tutto il dì e lo vivo come una malattia, come una cosa che sta peggiorando in me e in tutti. L’altro giorno ho smesso di leggere, perché sono stato bombardato dalle notifiche. Ecco, se posso aggiungere, di sicuro in cella mangiavo peggio: a casa ci stiamo abbastanza organizzando.
Il “menù brigatista” era pizza e tè, giusto?
Sì, prima di andare in scena, però la maggior parte dei pasti erano precotti. Da un punto di vista della salute devo dire che adesso sto mangiando sano, sarebbe meglio muoversi di più. Sono abituato a fare grandi passeggiate, è la mia unica attività fisica oltre agli spettacoli, ma non sto facendo nessuna delle due cose, quindi è un po’ faticoso. Tutto sommato dormo pure abbastanza regolare, spero che anche altri abbiano almeno un beneficio simile da questa situazione. Motivo di ansia e di insonnia sono le eccitazioni, le preoccupazioni per il lavoro, le cose da fare… non che non ci siano questi problemi adesso, ma sono così sospesi in un limbo che mi riesce difficile angosciarmi.
Adesso poi per carceriere hai Elvira…
È sicuramente meglio di Fabio Morgan, che mi scriveva in chat dal suo ufficio di direttore dell’Orologio come conforto. Avremmo dovuto fare Prigionieri a Casa Timpano come streaming di questi giorni, oppure Frosini/Timpano 54… comunque la nostra prima preoccupazione adesso è soprattutto poter tornare a lavorare su Ottantanove. Non sappiamo quale orizzonte temporale abbiamo davanti, nemmeno quando potremo uscire di casa per accendere la macchina, figuriamoci per riprendere le prove. Siamo stati i primi a smettere, saremo gli ultimi a riprendere il lavoro. Tra due mesi? Cinque mesi? Un anno? Non si sa. E a parte le giuste rivendicazioni che noi tutti del settore dobbiamo avanzare per avere un dignitoso sostegno in questo momento, la cosa che ci colpisce è l’immenso silenzio, in questo grande strepitare continuo, riguardo all’arte e allo spettacolo dal vivo.
L’abbiamo riconosciuto fin dall’inizio: c’è l’emergenza sanitaria.
Certo, ma che dovremmo fare? Metterci in soffitta o in cantina o ibernarci vivi per un anno o due in attesa che si possa riparlare di teatro e di arte, perché adesso non è importante, non è il momento, eccetera? L’arte non è una cosa necessaria, ci dicono. Con il tuo lavoro metteresti a rischio la vita degli altri, aggiungono. Un passo indietro. Responsabilità. Silenzio. Al più, puoi fare uno streaming casalingo per folclore e simpatia, se ti va, allo stesso livello del vicino che canta Baglioni dal balcone oppure, se sei un big del mainstream, puoi postare il video di una tua canzone o le preghierine alla televisione o fare una donazione o contribuire come testimonial per la campagna #Iorestoacasa; ma sempre un passo indietro, con responsabilità, non è il momento, eccetera.
È quello che state facendo anche voi con #Indifferita e #Teatroatradimento, sbaglio?
L’arte per noi, in tempi normali, è fondamentale quanto un ospedale. In tempi eccezionali come questi di sicuro è giusto che ci siano altre priorità, ma l’arte deve continuare a esistere perché è un presidio di pensiero, di riflessione e conoscenza: “L’artista è una bandiera, un simbolo vivente di un’intera società – ha scritto Marco Baliani in una lettera recente dalla quarantena – la rappresenta e interroga in ogni istante meglio, a volte, di come fa la politica o la filosofia”. Quando arriverà il dopo, e come si presenterà, non lo sappiamo ancora, ma in questo lungo “durante” manca un piano, manca coraggio, manca soprattutto l’interlocutore, che se c’è è muto, silente, e manca un pensiero che possa immaginare come traghettare gli artisti, chi fa questo lavoro delicato, verso il “dopo”. Per gestire questa ormai ineluttabile fase di transizione bisogna reinventarsi, dice qualcuno – scaricando liberisticamente la responsabilità di trovare soluzioni alle capacità di reazione e inventiva del singolo – e va benissimo, ci proveremo, ci reinventeremo, ma questo non è un lavoro che si possa fare in smart working, non credo proprio si possa trasformare tutto in podcast, dirette streaming e videoconferenze. Nemmeno temporaneamente. Di sicuro non gratuitamente.
L’idea del Ministro dei Beni culturali e del Turismo, Dario Franceschini, per affrontare questa fase è proprio creare una piattaforma online a pagamento, una “Netflix della cultura” (ha annunciato inoltre lo stanziamento di 130 milioni di euro per il cinema e lo spettacolo, e 20 milioni per i settori esclusi dal Fus). La politica ha rotto quel silenzio contro cui vi siete scagliati anche su minima&moralia.
Al momento la proposta sull’online avanzata dal Ministro è troppo vaga e generica perché sia seriamente valutabile. Il teatro è dal vivo. Posto questo, in generale ben venga un sistema pubblico che contribuisca a tenere traccia, storia e diffusione della creazione teatrale e che possa riconoscere un pagamento agli artisti, a patto che dia conto realmente del panorama teatrale contemporaneo. Prima di aprire una nuova piattaforma, comunque, farei funzionare meglio quelle che già ci sono, ampliando lo sguardo con nuove produzioni, più servizi, più documentari.
Questo isolamento potrà mai diventare il tema di un vostro prossimo lavoro?
È presto per dirlo e credo che probabilmente parecchi lo useranno. Comunque, i diritti, la democrazia, la libertà, la preoccupazione per gli altri, il senso di impotenza e di stagnazione, sono tutti argomenti presenti nei nostri spettacoli e certamente ritorneranno. Tutte le cose brutte o interessanti o vergognose o lucide che possiamo e potremo pensare in questo periodo finiranno dentro i nostri lavori. Parlando da autore, tutto quello che ci attraversa finisce nelle cose che facciamo. Tuttavia, il Coronavirus come oggetto di argomento esplicito non penso lo useremo.
Che cosa direbbe Aldo Moro, secondo te, della nostra “prigionia”?
Forse: “Almeno voi potete assistere alla messa in tv”. Qualcuno ha raccontato che si era fatto dare dai brigatisti un piccolo registratore: la sentiva così. Non so se è proprio vero, però mi pare una cosa carina da ricordare.
E il tuo Aldo Moro?
La risposta più semplice è: “Vabbè, niente di importante”, la frase che apre e chiude Aldo morto.