LAURA BEVIONE | Da qualche giorno – esattamente dal 15 aprile – è possibile ricevere una telefonata “terapeutica”, capace di lenire disorientamento e tristezza, rabbia e confusione, ovvero quegli stati d’animo che il forzato isolamento suscita in tutti noi. Questi “consulti telefonici” – forniti non dall’ordine degli psicologi bensì da grandi della letteratura quali Emily Dickinson e Dino Campana, Giacomo Leopardi e Anna Achmatova, giusto per citare qualche nome – sono un’idea di Velia Papa, direttrice di Marche Teatro che, come gli altri colleghi a capo di Tric e teatri nazionali, cerca di proseguire in qualche modo l’attività così da garantire non soltanto il lavoro di attori, tecnici e amministrazione, ma, forse soprattutto, il legame vivo e necessario con il proprio pubblico.
Delle difficoltà contingenti e delle possibili vie per superarle – o quanto meno per non soccombere a esse – abbiamo parlato proprio con Velia Papa.
Come sta trascorrendo questo periodo di quarantena? Come riesce a continuare il suo lavoro in questa epoca all’insegna delle videochiamate e delle videoconferenze?
Il lavoro non si è certo interrotto, anzi, è raddoppiato per tenere i contatti con tutte le aree di attività, per riorganizzarle e farle funzionare in vista di una riapertura che non metta a rischio l’azienda. Certo il lavoro è cambiato. La distanza forzata obbliga a un maggiore sforzo di pianificazione, a maggiori chiarezza e disciplina nella gestione delle innumerevoli riunioni online. In certi casi si tratta di modalità di lavoro addirittura più produttive ed efficaci. Poi ci sono i webinar italiani e internazionali di confronto con i colleghi sulle varie e complesse problematiche del momento.
La chiusura dei teatri come ha modificato la progettualità contingente e quella del prossimo futuro di Marche Teatro?
Situazioni di crisi come questa richiedono uno sforzo di creatività più grande, per essere preparati a riconfigurare il nostro futuro in una prospettiva non solo di breve periodo.
La questione più grande, al momento, è quella di una eventuale gestione della distanza sociale nei nostri spazi, una soluzione che mi lascia molto perplessa perché, se si applica alla lettera, comporterebbe costi insostenibili, oltre a penalizzare la fruizione. Credo che invece la risposta dovrebbe essere ancora una volta creativa nel ripensare lo spazio scenico.
Per quanto mi riguarda sono abituata, da sempre, a immaginare il teatro anche fuori dallo spazio convenzionale, quindi non mi spaventano soluzioni alternative alla modalità frontale.
Sarà necessario, infatti, nel passaggio alle prossime fasi della crisi, avere nuove idee anche per riuscire a mantenere le occasioni di lavoro per gli artisti. Anche in questo momento di stretto confinamento siamo riusciti a proporre un’iniziativa che mantiene il sapore del teatro facendo affidamento su due elementi chiave: la parola e la voce dell’attore. Rigorosamente per telefono, evitando l’immagine appiattita di uno schermo, i nostri attori in veste di Medici-Poeti, propongono, a chi li richiede, Consulti Poetici somministrando ricette a base di versi.
Molte realtà teatrali propongono alternative digitali agli spettacoli in presenza: cosa pensa di queste proposte e quali iniziative state architettando o avete già realizzato come Marche Teatro?
Affidarci alla riproduzione digitale è, se vogliamo, la risposta più ovvia. Nella consapevolezza, però, che l’immagine riprodotta su schermo non avrà mai la potenza della presenza fisica di attori e spettatori in uno stesso spazio. Il teatro non potrà mai essere, del tutto, un prodotto televisivo o cinematografico.
Questi strumenti hanno, però, un ruolo importantissimo che la scena teatrale ha, finora, sottovalutato. Forse questa emergenza permetterà agli operatori di capire più a fondo quali sono le potenzialità di un rapporto più stretto tra questi due ambiti.
È chiaro che il passaggio dal teatro al cinema può avvenire solo se ci si attrezza adeguatamente per passare in modo professionale da un linguaggio a un altro e, quindi, fare sì che lo spettacolo teatrale si trasformi in un vero prodotto televisivo o cinematografico a vantaggio di una migliore fruizione.
Foto Andrea Paolozzi
In questa direzione vorrei citare un’esperienza straordinaria che ho avuto modo di condurre qualche anno fa e che riguarda la nostra produzione 456, con testo e regia di Mattia Torre. Mattia, che non possiamo smettere di rimpiangere, era geniale uomo di teatro ma anche sceneggiatore e regista cinematografico; trasformò quindi il testo teatrale nella sceneggiatura di una serie televisiva di quindici puntate di tre minuti l’una, mantenendo però intatta l’ambientazione teatrale, gli attori e la struttura dello spettacolo. Ne risultò una produzione, che potremmo chiamare “derivata”, che aggiunse qualcosa allo spettacolo, pur essendo cosa diversa, ma con una gestione dei tempi tipica dello schermo.
Crede che sia stia facendo abbastanza per salvaguardare le arti performative e i lavoratori dello spettacolo in questo periodo di crisi?
No, penso che si stia facendo poco, anche se capisco che le problematiche più gravi, quelle sanitarie e sociali, devono avere la precedenza. Ma penso che non bisognerebbe mai mettere ai margini il discorso artistico e culturale. Gli artisti sono oggi quelli più penalizzati e, purtroppo, lo saranno ancora per diverso tempo, data la situazione. Credo che vadano invece particolarmente tutelati. Per questo è fondamentale sostenere e incentivare ogni progettualità, compatibile con le restrizioni di questa circostanza.
Una domanda più personale: quali autori sta frequentando in questi giorni e quali riflessioni/pensieri/immagini le suggeriscono?
In questi ultimi tempi ho letto soprattutto poesia per preparare la selezione dei testi per il progetto Consulti Poetici. Voglio riportare i versi di Paul Verlaine:
«Poiché l’alba si accende, ed ecco l’aurora, / poiché, dopo avermi a lungo fuggito, la speranza consente / a ritornare a me che la chiamo e l’imploro, / poiché questa felicità consente ad esser mia, / facciamola finita coi pensieri funesti, / basta con i cattivi sogni…».