FRANCESCA DI FAZIO | «Eh si, così poco da dire, così poco da fare, e una tale paura certi giorni di trovarsi con delle ore davanti a sé prima del campanello del sonno. E più niente da dire, più niente da fare, che i giorni passano, certi giorni passano e vanno senza che si sia fatto niente o quasi, senza che si sia detto niente o quasi».
Uno stralcio di diario di un artista in questo periodo di quarantena? Un pensiero pronunciato svogliatamente da qualcuno alla finestra? Un’opinione letta su un giornale?
No. Un frammento di Giorni felici di Samuel Beckett.
Nella costellazione di contenuti web che si sono moltiplicati in questo periodo di confinamento sulle pagine di teatri e artisti, spunta una creazione raffinata ed efficace del testo beckettiano ideata dalla compagnia Teatrino Giullare (Giulia Dall’Ongaro e Enrico Deotti). Si tratta di piccoli video realizzati in stop-motion che descrivono alcuni momenti di Giorni felici e che vengono diffusi sulle pagine social della compagnia (e tutti raccolti nel loro sito), creando così un contenuto che risponde alla contrazione temporale richiesta dal format, senza tuttavia restare schiacciato in una banalizzazione del quotidiano o dell’usa e getta virtuale.
Il duo di Teatrino Giullare fa qui di nuovo prova della capacità intuitiva che lo porta a rendere con precisione e sensibilità alcuni tra i testi più pregnanti della drammaturgia contemporanea attraverso l’utilizzo di attori artificiali, ovvero figure, riproduzioni materiche dell’umano con le quali far emergere il testo. Dopo essersi confrontati con Pinter, Bernhard, Koltès, Jelinek, tornano qui, in modo frugale eppure preziosamente curato, all’autore che avevano reso in modo eccezionale nel memorabile Finale di partita, realizzato come un’icastica partita a scacchi.
In questo Diario dei nostri giorni felici, Winnie e Willie sono due bambole di plastica, immobilizzati nelle loro condizioni fisiche come in quelle esistenziali, vittime degli eventi esterni, delle intemperie, contornate solo da quei pochi oggetti: un cumulo di sabbia, un pettine, uno spazzolino da denti, un dentifricio, un rossetto, un giornale, un parasole, una rivoltella. Qualche frase, i loro giorni divini.
Incuriositi da questi contenuti e in vista del laboratorio on-line che lanceranno a breve, abbiamo colto l’occasione per porre alcune domande a Giulia Dall’Ongaro e a Enrico Deotti su questi giorni felici, così nostri e beckettiani, intimi e universali.
Una domanda di rito: come state passando questo tempo? Che paesaggio avete intorno?
Chiusi in casa ovviamente, ci circondano prati, alberi, qualche casa, più in là una fabbrica. E il nostro laboratorio naturalmente.
Come sentite, in questo momento, il teatro? Come qualcosa di distante o sempre vicino? Il teatro in streaming secondo voi aiuta?
Il teatro è sempre con noi. Riguardo lo streaming chissà, bisogna capire.
Da un po’ di tempo i vostri canali social si sono arricchiti di brevi video che raccontano di «giorni felici». Alcuni stralci di testo che avete scelto descrivono in modo incredibile le nostre quotidianità domestiche. Tratti dal testo di Beckett, sono in realtà specchio dei nostri giorni? In che modo ci parlano oggi?
Giorni felici è un caleidoscopio di sfumature da decifrare e, nonostante una ricca storia di allestimenti, ha ancora molto da dirci. Parla della vita, della formidabile ostinazione della vita, e la sempre più totale impossibilità di movimento di Winnie in questo periodo storico diventa davvero emblematica. Affiorano i temi dell’incomunicabilità, dell’isolamento, dell’alienazione.
Il punto di partenza è una situazione bloccata, di stallo, in cui il tentativo stesso di farsi venire un’idea è problematico. Ma i personaggi dimostrano, nonostante tutto, di essere ancora vivi e domani forse sarà un altro giorno felice.
Nei vostri video Winnie e Willie non solo sono immobili, costretti e distanti come nel testo di Beckett, ma acquistano una sfumatura ancora più definitiva e inquietante: sono bambole, sono di plastica, sono manovrate. Come in altri vostri lavori, anche qui l’uso di attori artificiali amplifica il senso profondo della drammaturgia rendendolo iconico. Come siete arrivati a formulare questa idea?
Abbiamo trovato particolarmente interessante l’aderenza del testo agli strani giorni che stiamo vivendo in questo periodo di stasi, l’impossibilità di spostarsi e di esprimersi, come se risuonasse un’eco singolare. Inoltre l’attore artificiale, per sua natura, è una cosa e ne intende un’altra, non essendo un calco o una copia acquista capacità espressive, di movimento e di sguardo che producono su chi guarda un effetto che prolunga l’azione, il significato delle parole; offre allo spettatore un’impressione ulteriore, una potenza significativa, un’eloquenza aggiuntiva. Può far vedere più di quanto siamo di solito in grado di vedere, spesso va oltre le aspettative. Ogni attore artificiale ha un nucleo enigmatico, oscuro che conserva suggestioni recondite, che traspone forza e intensità alle immagini che crea. Ma naturalmente non si tratta di instaurare un sistema senza vita di segni allegorici, è fondamentale che l’immagine che si crea non sia separata dal suo rapporto con la poesia e con il dramma.
Avevate già lavorato in stop-motion?
No è la prima volta, ma ci è sembrato che fosse, in una situazione congiunturale di quarantena, la tecnica più appropriata al testo, più contigua a un’idea di teatralità e più efficace a tradurre in immagine un’esperienza fondamentalmente statica che conduce ad una riflessione sull’attesa, il ricordo, la condizione umana.
Una provocazione: il teatro che si avvale di mezzi figurativi e artificiali potrebbe essere il tipo di teatro che meglio funziona a distanza? Che meglio funziona in video, in immagini, in storyboard?
È ambiguo pensare a un teatro a distanza, il teatro è qui ed ora, in presenza, ed è costituito dalla presenza fisica di un attore e di uno spettatore che si muove e si avvicina con un serbatoio di speranza. Ma si possono creare altre forme artistiche.
Siamo tutti rinchiusi nei nostri giorni felici, ciechi e incapaci? Tutto quello che sta fuori, il dolore degli altri, gli scandali di vite umane perse in mare, o in case di riposo, o nelle favelas, trovano spazio nel nostro tempo “addomesticato”?
I personaggi beckettiani, come la maggior parte dei sapiens, sono comunque attaccati alla vita, anche in condizioni estreme, ma è necessario far particolare attenzione ai processi di de-sensibilizzazione presenti nella nostra società, di de-umanizzazione e di esclusione di singoli individui o di interi gruppi tramite strategie psicologiche di delegittimazione dell’altro.
Se la chiusura dei teatri dovesse protrarsi ben oltre il termine previsto per la fine della quarantena vera e propria, come pensate che possa andare avanti il teatro?
Sarà come dice Winnie: «C’è così poco da fare che si farà tutto, tutto quello che si può».