MATTEO BRIGHENTI | Aria aperta, mente aperta. A Bisaccia, in provincia di Avellino, il vento soffia costante e impetuoso. Come quelle passioni intime e civili che, secondo Franco Arminio, aumentano le difese immunitarie. È nato e vive qui da 60 anni, in questo borgo di 4mila abitanti in Irpinia d’Oriente, l’amato poeta inventore della paesologia. «Il paesologo – spiega a PAC – è uno che pensa al presente e all’avvenire dei paesi, di tutti i paesi. Lo rappresento in contrapposizione al paesanologo, lo storico locale, che si occupa solo e soltanto del suo paese e per lo più del passato».
Di sé dice: sono Arminio, alto e fragile, d’alluminio. In un altro verso: sono fragile, ma divento forte se mi spezzano. In un altro ancora: la vita è sempre stata questa, una vibrante vita mesta. «Una forza apparente in realtà è una fragilità – riflette – una fragilità apparente in realtà è una forza. La forza e la fragilità spesso cambiano di posto, non stanno dove te le aspetti».
Lo sa in prima persona: da una vita viaggia, scrive, agisce per le piccole comunità. È infatti ispiratore e punto di riferimento di molte azioni contro lo spopolamento dell’Italia interna. Ha ideato e portato avanti la Casa della paesologia a Bisaccia e il festival La luna e i calanchi ad Aliano. Nel tempo del Coronavirus la sua voce si leva ancora più decisa e ci richiama al rinnovamento, alla cooperazione, all’umiltà, nella sacralità del rapporto con gli altri e con la natura.

La prima domanda, ormai, è una consuetudine. Si dice che questi sono giorni “sospesi”. Che cosa significa per lei?

Viviamo un intervallo tra un primo e un secondo tempo e nell’intervallo c’è una sospensione del gioco, in attesa della ripresa. Sicuramente c’è stata un’interruzione imprevista nelle faccende di ognuno e nelle faccende generali, e in parte c’è ancora, tra l’altro: la sospensione continua, è ancora ampiamente irreale la situazione. Basta pensare al fatto che non ci possiamo stringere la mano, tanto per dirne una. Siamo ancora nella fantascienza.

A questo proposito, nell’intervista impossibile pubblicata su Fanpage.it lei fa dire al Coronavirus: «Ogni giornata è tutto, non c’è un prima e un dopo».

Io dico di abitare questa situazione, che è provvisoria, ma tutto è provvisorio oggi in questo mondo. Bisogna abitare ogni momento, sia a livello individuale, che a livello collettivo. Bisogna fare buon uso di questa sospensione, di questa sventura, di questa interruzione… chiamiamola come vogliamo. Il mio è un richiamo ad agire e a sterzare fin da adesso. Quando si parla di ripresa, io ripeto: non la ripresa tal quale, ma ripensare le cose, il modo di produrre, anche banalmente il modo di gestire un bar, un ristorante, un treno; un ripensamento fittissimo che dovrebbe avvenire in queste settimane. Anzi, secondo me ne abbiamo già sprecate un po’. C’è stata una deficienza di immaginazione: è stato più immaginativo il virus che noi.

In che senso?

Nel senso che il virus ha prodotto d’emblée una logica, ha inventato un mondo che prima non c’era. Come in una sorta di combattimento di karate, il virus ci ha messo con la schiena a terra e noi procediamo faticosamente per restaurare il già visto. Invece, ora si tratta di applicare una parte delle nostre risorse mentali, sociali, economiche, per immaginare qualcosa di nuovo, nel modo di relazionarsi tra le persone, di stare all’aperto e di stare al chiuso, nel modo di fare teatro, poesia, cinema. Non mi sembra che al momento abbiamo fatto un grande sforzo immaginativo.

Per gli artisti lei ha chiesto «un reddito di immaginazione, che però non sia immaginario».

Nell’immediato bisogna dare i soldi anche agli artisti. Per il futuro, per “reddito di immaginazione” intendo far fare loro cose nuove, impiegarli, per esempio, nella scuola. Già questa estate si potrebbe fare una specie di grande scuola nei boschi sull’Appennino in cui attivare corsi di musica, di teatro, di cinema, di poesia, pagati dallo Stato. Questa cosa produrrebbe reddito e vicinanza delle persone ai territori: in quei giorni le persone consumerebbero i prodotti tipici, creando anche relazioni affettive verso i luoghi, premessa magari per un eventuale trasferimento. Si può usare l’arte negli ospedali: perché non farci dei concerti, delle letture, dei monologhi teatrali? C’è tutto un uso sociale dell’arte, secondo me, che può creare reddito.

È a questo che si riferisce quando parla di «cooperativa di comunità»?

Ognuno di noi è un pezzettino dell’altro. Siamo tutti così connessi che il respiro di un altro ci può essere fatale. Il mondo è una “cooperativa di comunità”. Siamo qua per abitare questo pianeta e lasciarlo a chi verrà dopo, usando le risorse che ci bastano, senza fregarci tutto. Esattamente come quando vai in un albergo: non è che dormi e poi la mattina con il martello rompi tutto. Te ne vai e sai che il giorno dopo verrà a dormire qualcun altro. Quindi sì, penso che questo spirito di cooperazione debba tornare a essere presente nelle nostre vite e non solo in ambito economico, dove, tra l’altro, con il liberismo è caduto molto in disuso.

Una comunità quindi interconnessa e sempre in divenire?

Certo, io non a caso parlo di “comunità provvisoria”. Non dico mai “comunità” e basta, aggiungo sempre l’aggettivo “provvisoria” per indicare che la comunità è mobile. Non intendo, però, la comunità del passato, non sono un nostalgico. La comunità è mobile, perché le componenti che la compongono sono mobili e nessuno sa che evoluzione avrà. Noi dobbiamo accettare che siamo immersi nel mistero, il virus ce l’ha fatto capire in maniera chiara. È la prova che abbiamo balbettato un po’, ma è veramente oscena la quantità di cose che non sappiamo: ogni sapere che acquisisci ti produce una sensazione di ignoranza ulteriore. Perciò, io predico una comunità anche umile. L’uomo di questo tempo, l’uomo colpito da questo virus era un uomo non umile, noi come specie non eravamo certo nel momento di massima umiltà della nostra storia.

Umili non lo siamo né tra di noi, né con lo spazio che ci circonda.

La parola “spazio” l’abbiamo intesa come “farci spazio nel mondo”, sgomitare per raggiungere posizioni. In verità, si tratta di sentire la poetica che c’è in ogni spazio. È molto diverso come atteggiamento, prevede un altro tipo di uomo, che capisca che ogni spazio è una cosa benedetta. Farò un libro che si chiamerà La cura dello sguardo – Nuova farmacia poetica. Lo sguardo è una sorta di farmacia, di terapia: la medicina fondamentale, secondo me, è proprio lo sguardo attento, clemente, dolce sullo spazio, come se le cose rilasciassero delle sostanze vive che ci guariscono, che ci fanno stare bene. Io credo fortemente nella medicina del mondo esterno. Cioè, nel mondo esterno come “farmacia”.

Come possiamo tornare a fidarci di questa “farmacia” adesso che c’è la possibilità di essere un pericolo gli uni per gli altri?

Non ci siamo solo gli uni e gli altri, non ci sono solo gli essere umani. Sì, non posso stringere la mano a una persona, però posso stare sotto un albero, questo albero non mi dà infezione, le piante, ad esempio, non sono affette dalla Covid-19. Non è lo spazio che è malato, è il nostro corpo, alcuni corpi. Ci mettiamo la mascherina, ma l’agguato non è nell’aria, è in quello che noi buttiamo nell’aria, con il respiro, la tosse, lo starnuto. Quindi, lo spazio è sacro e noi dovremmo abitarlo sapendo che è sacro. Noi, invece, lo vediamo semplicemente come una pista per muoverci. Siamo veramente dei barbari, non siamo creature sofisticate. Vediamo un bosco e pensiamo agli asparagi, alle fragole, abbiamo un’ottica estrattiva dallo spazio, badiamo a cosa ci possiamo ricavare. Al contrario, se tu gli doni il tuo corpo, i tuoi sensi, lo spazio ti guarisce, sembra che non hai preso nulla, ma in realtà ti porti a casa un po’ di guarigione.

Il problema è la normalità da cui veniamo e a cui sembra si voglia tornare quanto prima?

Quella parola è oscena, secondo me. Dire “torniamo alla normalità” significa proprio non aver capito niente. A parte che si tratta di una normalità drammatica per tanti popoli, ma poi chi era felice prima del Coronavirus? Io giro l’Italia in lungo e in largo, l’ho girata fino al 4 marzo scorso: non è che ho trovato tutta questa felicità. Io sto dicendo da settimane questo: approfittiamone, non per smantellare il capitalismo, perché non è possibile, ma per rifare una sorta di “modernità plurale”, in cui dai spazio all’economia, ma anche ad altro. Io, per esempio, ho proposto il baratto in questi giorni come esempio concreto di microeconomia. Magari non entra nel PIL, però per la nostra vita è una cosa reale.

In sottofondo alle sue parole al telefono sento degli uccellini: lei è in un’oasi felice che le permette di mantenere uno sguardo, credo, altrettanto felice. Come accoglierlo nelle città, dove al posto degli uccellini “cantano” le macchine, come nel mio caso?

Ogni posto è felice o infelice a seconda di dove lo guardi. Il concetto di felicità è sempre relativo. Al mio paese, e nei paesi in generale, per la qualità dell’aria siamo davanti, ma ci sono tanti problemi, a cominciare dal lavoro. Certo, tutti i cittadini hanno ancora a pochi chilometri un po’ di paesaggio, non è che devono andare fino in Mongolia. Sarebbe una grande delusione se questa estate gli italiani perdessero l’opportunità concreta di riabituarsi a vivere la natura, dove peraltro non c’è il problema del distanziamento e il virus ha attecchito meno, come in montagna. Io la vedo così: bisogna finirla di teorizzare le cose, siamo nel momento in cui le cose vanno fatte.

Quello che ha fatto lei è stato diffondere online il suo numero di cellulare e aprirsi all’incontro con chiunque lo desiderasse. Qual è stata l’esigenza alla base di una scelta simile?

Mi piaceva dare un piccolo contributo, fare una specie di volontariato, poiché sapevo che c’era tanta gente smarrita. Ho avuto una frequentazione con il panico, sono una persona spaventata di natura, quindi è come se avessi avvertito di avere una qualche competenza su questo argomento. Mi è sembrato giusto regalare tre ore al giorno la mattina, dalle nove a mezzogiorno, alle persone. Tra l’altro, è stato un regalo che hanno fatto loro a me, perché ho sentito tanta gente attenta, una bella Italia, matura. Non erano telefonate dedicate a uno specifico tema, né tantomeno da “telefono amico”: abbiamo parlato di letteratura, di lavoro, di questioni sentimentali, delle cose più varie.

In qualche modo la bellezza può salvare il mondo o almeno farci stare meglio?

Si vive perché qualcuno ci parli e per parlare a qualcuno. Stiamo bene quando siamo alla vigilia di un appuntamento: sapere che incontreremo quella data persona, che ci parlerà, è una cosa che ci dà molta vita. Invece, purtroppo, stiamo vivendo tante giornate in cui queste parole che aspettiamo non arrivano; c’è una sete diffusa di parole dette e fatte per noi che non arrivano.

Sembra guardare non solamente a noi, ma anche ai paesi.

Da molto tempo tutti, il mondo intellettuale, i grandi giornali, la televisione, fanno fatica a parlare dei paesi come di una parte dell’Italia uguale alle altre. Vengono considerati come luoghi minori, è una distorsione culturale molto profonda e provinciale. È un “provincialismo cittadino”, tra l’altro, che poi si riversa nei paesani: pensano che se non li considerano vuol dire che non sono interessanti. Una volta ho scritto: se ne sono tutti andati, specie chi è rimasto. Io vorrei che in Italia ci fossero le città grandi, le città piccole, i paesi grandi, i paesi piccoli: ognuno dovrebbe poter abitare nel posto che gli è più congeniale o avere anche più residenze, magari andare in estate in montagna, in inverno in pianura, in una sorta di transumanza, come fanno gli animali.

Non andarsene restando, ma restare andando, se possiamo dire così.

Adesso mi fa piacere che c’è più interesse, più attenzione di prima ai paesi nella complessità del loro ecosistema: le persone, le creature che li abitano, gli animali, le piante. Sono passati 40 anni da quando ho cominciato a sostenere che c’è una “questione dei paesi”. Nel 1980 (anno del terremoto in Irpinia, ndr) ero abbastanza solo, non mi facevano interviste, però, come vedi, sono andato avanti lo stesso.