ELENA SCOLARI | Luca Scarlini è una delle persone più colte e divertenti che conosca. E le due cose insieme sono pregio assai raro.
Saggista, drammaturgo, storyteller in scena, insegna all’Accademia di Brera e in altre istituzioni italiane e straniere; collabora con Rai Radio3. Tra i suoi libri: La musa inquietante (Cortina), Equivoci e miraggi (Rizzoli), D’Annunzio a Little Italy (Donzelli), Lustrini per il regno dei cieli (Bollati Boringhieri). Scarlini è profondo conoscitore della Storia dell’Arte e dello Spettacolo ma anche di musica e moda, è un pozzo di aneddoti succulenti e dottissimi, conditi da una capacità affabulatoria inebriante.
Ultimamente frequenta spesso per lavoro la Svizzera, le Fiandre e i Paesi scandinavi ma ha passato la quarantena in Italia, a Milano. Iperattivo come sempre, ha lavorato alla curatela di due mostre, ha scritto un libro e ne sta concludendo un altro. Insomma, il lockdown non lo ha messo knock-out.
Che cosa ne è stato di te in questi mesi di reclusione, come ti sei sentito?
Chiaramente dentro un racconto di Kafka. Io odio stare in casa, ci sono persone entusiaste e che non usciranno forse mai più mai da casa perché per la prima volta la loro vita ha uno scopo universale, mentre per me stare a casa è un incubo quindi mi sono dovuto inventare una dimensione domestica forzata che per me ha il carattere della prigionia.
Ho una forma abbastanza seria di colesterolo per la quale devo fare 30 km al giorno tra piedi e bici: mi sono fatto fare otto certificati da otto medici diversi che mi permettevano di uscire per camminare.
Oltre a odiare stare in casa non ho nemmeno una passione per la polizia e in questi mesi ho avuto varie occasioni di litigarci con la possibilità di vincere sempre, grazie ai miei certificati. Ho avuto più incontri con la polizia, per esempio mi è capitato, essendo insonne, di incontrare una pattuglia notturna che mi ha fermato dicendo “Se lei circola alle 4 del mattino sulla Martesana dev’essere uno spacciatore” e io ho risposto “Perché, cosa le manca?”.
E quindi questi mesi mi sono abbastanza volati perché inventare ogni giorno una strategia per evitare leggi inique e assurde è stato un modo interessante per tenersi in forma.
Ma la polizia non sa che tu sei il personaggio di un romanzo.
No, certo, e poi speravano nella multa. C’era un progetto di fare cassa con quelle perché l’anno prossimo nessuno pagherà le tasse, saremo finalmente tutti miserrimi.
E come ti sei riempito le giornate di clausura?
Oltre a scappare di casa secondo quello che mi permettevano i certificati, ho riepilogato i ricordi di mio padre sulla Resistenza (che avevo sempre trovato molto tediosi) ed essendo a Milano, impedito nel fare lavori di ricerca e scrittura su temi vari per via delle biblioteche chiuse, è nata una pratica esilarante con i miei collaboratori occulti: consegne come Lascia l’edizione critica dei poemi tardo omerici al bancomat di via Melchiorre Gioia, roba da Resistenza francese e cinema impegnato degli anni ’40!
In questo momento dell’apocalisse che molti hanno vissuto male, io ho scritto tantissimo. È in uscita un libro su una figura fondamentale del mondo queer italiano della Milano anni ‘70, Mario Mieli, che si intitola L’uccello del paradiso (sarà edito da Fandango) e l’ho scritto proprio nel cuore del disastro perché ho pensato che fosse fondamentale non occuparsi di Covid nella scrittura, una cosa che ritengo di dubbio gusto.
A chi mi ha chiesto cosa pensavo dei libri sulla pandemia ho risposto: avete presente la peste del 1630? Ecco, il libro si chiama I promessi Sposi ed è del 1840, forse serve del tempo per fare opere sensate, no?
C’è una certa ansia da produzione, ultimamente. Cosa pensi di come è considerato il lavoro culturale in Italia?
Si è discusso moltissimo di cosa siano la cultura, la letteratura, il teatro, la musica, le arti come mestiere e sono state le persone a mostrarcelo, perché sono sopravvissute attingendo a quelle, in questo periodo.
In Italia si pensa che la cultura nasca sotto i fiori, e che si sviluppi nell’aere come il vol della farfalla, invece c’è un mestiere dietro e negli altri Paesi gli artisti fermi hanno avuto sussidi molto prima e molto più consistenti che da noi.
Che cosa ha fatto emergere, rispetto al mondo del teatro, la situazione che si è creata per via del virus?
Ci sono due nodi: forme teatrali troppo grosse per essere supportate in un momento di crisi economica universale non avranno possibilità di sussistere come non ce l’avevano dopo la Seconda guerra mondiale. I grandi festival sono nati tutti nel 1947: Avignone, Edimburgo, il festival d’opera di Aix-en-Provence, ma tutti hanno aperto con spettacoli piccoli. Laurence Olivier fece un Amleto senza costumi perché non se li poteva permettere. Disse: Io non sono mai stato un regista d’avanguardia, ma sono passato per tale perché non avevamo i soldi per i costumi d’epoca, o nudi o in abiti contemporanei!
Ci sarà un redde rationem, non sulla fantasia bensì sull’essere tutti al di fuori di una logica del divismo; casi in cui il divo cinematografico o televisivo costa più dell’intera produzione non ci saranno più, il teatro del divismo è morto. Bisogna tenerne conto perché questo è stato rovinoso, negli ultimi anni, in tutta Europa. Il Teatro d’arte è stato poco tutelato.
Secondo nodo: per il Mibact le persone che fanno teatro esistono soprattutto come didatti di un’arte per cui non si considera che ci sia sbocco lavorativo. È un paradosso tutto italiano, un atto teologico: insegnare un’arte che non ha possibilità di manifestarsi.
Quali cambiamenti pensi ci saranno nella produzione culturale del dopo-Covid?
Saranno le forme agili che sopravvivranno, i lavori più piccoli. Benissimo gli spettacoli in appartamento ma di altissimo bordo, con bellissimi testi e attori giovani.
Si dovrà essere piccoli e splendenti. Come Twiggy. Che è sempre stata uno dei miei modelli. Ho sempre ammirato che si possa venire da un luogo di periferia, come anche David Bowie, e inventarsi una mitologia su un’identità diversa da quella che si ha.
Sarebbe utile per il mondo culturale smettere di voler diventare tutti persone di Netflix perché lì ci sono i soldi e pensare, invece, che potrebbe essere divertente riscoprire la propria limitazione assoluta di mezzi. Il teatro è una cosa squisitamente limitata, squisitamente. Cioè è squisito quanto sia limitato. Godiamoci questa squisitezza.
Stai lavorando a una Storia della casa editrice Bompiani, che ebbe un ruolo determinante nella costruzione del Piccolo Teatro di Milano. Cosa credi dovremmo riprendere di quegli anni?
Fu un’epoca effervescente, nel caso del Piccolo un grande editore è stato dietro la nascita di un grande teatro. Ci vuole mescolamento delle discipline. Paolo Grassi e Apollonio Bompiani si incontrano perché l’editore vuole pubblicare i testi delle opere che verranno messe in scena. Lo faranno dal ‘45 al ’65: un anno Harold Pinter era in scena a Londra, Bompiani comprava i diritti del testo e Grassi quelli per lo spettacolo e sei mesi dopo Pinter era da noi, in teatro e pubblicato. Un modello da studiare, no?
Erano anni in cui i giovani dei teatri universitari potevano trovare un editore già affermato che credeva in loro.
Milano ha vissuto più di iniziative individuali che di istituzioni: Elio Vittorini nel ’44 fa il redattore a giorni alterni, di nascosto, poi fa il partigiano, l’arrestano, scappa, scrive Uomini e no e nel frattempo Grassi chiede a Bompiani di dargli tutti i salotti dei ricchi di Milano per mettere in scena testi di iper-avanguardia censurati dal fascismo ma che in salotto si potevano allestire. Un fervore cui ispirarsi.
Continuiamo sulla linea di quello che ora sembra impossibile: tu sei stato Oscar Wilde per la trasmissione radiofonica di Rai Radio3 Tutta l’umanità ne parla. Cosa pensi che direbbe di questa nostra misera condizione?
Direbbe che l’obbligo morale di ciascuno è risplendere. È molto facile lamentarsi e piagnucolare, ma se uno non risplende non è interessante. E passare i prossimi anni in un lamento collettivo mi sembra deprimente.
La pandemia ci ha fatto diventare grandi?
Spero di no! L’adultità non serve nell’arte. Francis Bacon, immenso, diceva: «Se io non avessi le mie manie non potrei produrre niente», L’infantità dell’artista non è fare i capricci e pretendere l’acqua Evian in camerino ma avere un po’ di ossessioni vere e serie cui dare fedeltà.
La cultura italiana ha giocato poco con le ossessioni e molto con i photo book, con i selfie. L’arte è una materia basata sulla volontà di stare dietro alle proprie manie, non agli eventi sociali. Carmelo Bene era talmente autistico che non poteva che essere perfetto.
L’arte può essere una via per capire di più, per tornare a dare corpo e vita a una nuova libertà forse più consapevole?
Non è immediato né semplice perché la società è spinta verso la santimonia spocchiosa e angelicante (come diceva Paolo Poli), ma una chance c’è.
Ho appena finito di curare una mostra al Museo MAN di Nuoro sulle relazioni Piemonte/Sardegna dalla nascita del Regno di Sardegna nel 1720. Il regno segreto, ha inaugurato pochi giorni fa e ricevo molte mail in cui i visitatori dicono che finalmente si capisce quanta ricerca culturale ci sia dietro al progetto della mostra. Anche dietro uno spettacolo ci dev’essere una grande ricerca culturale. Magari poi lo si costruisce in tempi rapidi ma bisogna aver pensato al perché si vuole un certo testo, una certa luce.
In arte ognuno gioca con quello che ha (come nella vita) ma un’idea bisogna averla.
Se fossi giovane farei da me. Chi se ne frega se i grandi vecchi non ti danno l’autorizzazione a fare quello che vuoi fare.
Però in questo periodo c’è stata una richiesta di riconoscimento istituzionale da parte degli artisti. Vogliono sedersi a quei tavoli ma non per rovesciarli, come fu invece per i rivoluzionari.
Guarda, io potrei accettare di sedermi ai tavoli del casinò di Sanremo o di Venezia; se uno vuole giocare con la sorte allora ha senso.
Io ho avuto un percorso anarchico, ho diretto il festival MilanOltre ma non era la mia dimensione, mi interessava la ricerca culturale e non le relazioni amministrative che ci stanno dietro. Se gli artisti in Italia vogliono il riconoscimento ministeriale moriranno d’inedia, quella strada sarà sempre più stretta, come una garrota.
Il budgettificio e il borderificio sono indotti da leggi italiche non felici, sono cose che verranno meno per lasciare spazio a percorsi di storie da raccontare. I soldi saranno pochi, si rinegozierà tutto. Non ci saranno più i grandi spettacoloni.
Serve iniziativa, poi si fa da sé, dobbiamo spingerci da noi perché ora non ci aiuta nessuno.
Fare l’artista è assumersi un rischio?
Certo, che noia la sicurezza! Il rischio è necessario per l’arte. Non è necessario per fare il contabile, ma per fare il muratore sì; se vuoi fare bene la casa devi arrampicarti fino all’ultima tavola. Tutti i lavori che prevedono la presenza umana sono rischiosi.
L’unica barra da tenere è quella delle proprie ossessioni estetiche, che possono essere ingombranti, spiacevoli per gli altri e non hanno a che fare con la beneficenza e con la santimonia.
Guardiamo ai fatti teatrali fondamentali. Io non amo per niente il Papa ma con quella sua messa solitaria ha cancellato il teatro italiano. Ha fatto uno spettacolo che manco Castellucci nell’epoca trionfante! E si è preso un rischio, poteva apparire ridicolo e invece ha beccato il momento, l’immagine, ha sintetizzato il periodo. Superando anche Sorrentino. The Young pope 2 sembra il Mulino Bianco al confronto.
Questa è un’epoca estrema che durerà a lungo. Guarda cosa sta succedendo negli Stati Uniti: crediamo che in Europa non arriverà l’onda della distruzione? Arriverà per forza perché la gente sarà povera. Forse non sarà così tragico ma il momento è complicato.
Tornando alle memorie della Seconda Guerra mondiale in una Milano massacrata, mi fa impazzire pensare che Paolo Grassi soldato in uniforme, disertasse per andare a discutere di Brecht con Bompiani. Se fai il tuo mestiere questo devi fare.
Stare dietro alla cronaca, invece, è il tumore d’italia.
E la cronaca è poco romantica.
La cronaca per definizione è prosastica, ogni forma d’arte deve invece essere poetica.
Nabokov, autore grandissimo, ha scritto Lolita mentre faceva la fame come professore di ultimo rango in un collegio di ragazzine. Gli dicevano che non avrebbe mai dovuto scrivere quel romanzo, perverso e bizzarro, poi abbiamo visto quale destino ha avuto.
Tutti i grandi artisti del ‘900, anche Pirandello, sono in sostanza fatti di ossessioni. E dalle ossessioni escono testi bellissimi.
Solo le nostre ossessioni ci ripagano.