RITA CIRRINCIONE | Avanzavo di asse in asse /un lento e cauto cammino / le stelle intorno al capo percepivo / intorno ai piedi il mare. Emily Dickinson
Non c’è cancello, serratura, catenaccio che potete apporre sulla libertà della mia mente. Virginia Woolf
Accostandomi alla Compagnia Oltremura e alla sua ricerca drammaturgica, la mente corre alle autrici citate: Emily Dickinson, che fece del confinamento tra le mura della sua camera una scelta e dell’isolamento il grande alleato della sua libertà poetica; Virginia Woolf che, nel breve saggio del 1929 Una stanza tutta per sé, ribaltando il significato di casa come luogo di emarginazione femminile, rivendica il possesso di uno spazio domestico esclusivo per la donna che vuole dare voce alla propria creatività o dedicarsi alla scrittura.
Misurarsi con il limite, superare quel susseguirsi di barriere – fisiche e burocratiche – che si attraversano quando si varca la soglia di un carcere, farne un esercizio di libertà e di creatività; trasformare lo spazio domestico attraverso un lavoro di immaginazione per ri-creare un’identità femminile: quasi un destino per Oltremura, la Compagnia fondata da Claudia Calcagnile che dal 2016 ha realizzato progetti teatrali rivolti alle donne recluse all’interno della sezione femminile dell’Istituto Penitenziario “Pagliarelli-Antonio Lorusso” di Palermo. E che, quando la pandemia ha confinato tutti a casa – quasi una sorta di beffardo contrappasso – per dare continuità al progetto ha lanciato sui canali social #Libereincamera, una call sul tema della trasformazione creativa di sé all’interno delle mura domestiche.
Regista, performer e docente di teatro sociale presso Artedo, di origini pugliesi, Claudia Calcagnile si diploma presso la Scuola di Teatro Sociale e Performing Arts Isole Comprese di Firenze diretta da Alessandro Fantechi ed Elena Turchi, e approfondisce la propria formazione con, tra gli altri, Enzo Toma, Ewa Benesz, Andrea Meloni e presso l’Atelier Teatro Fisico di Philip Radice di Torino.
Nel 2012 fonda l’Associazione Mosaico con la quale realizza laboratori e spettacoli teatrali volti alla costruzione di azioni di comunità in contesti di marginalità. Negli anni realizza progetti con minori a rischio di dispersione scolastica (quartiere Borgo Vecchio di Palermo), con utenti psichiatrici (presso il servizio di psichiatria del Policlinico di Palermo), con minori stranieri non accompagnati (con il sostegno dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Milazzo). Ha collaborato con la regista Paola Leone nel progetto/performance Radiografie Invisibili sull’universo femminile e sul tema della salute delle donne.
Claudia Calcagnile, come nasce l’esperienza con le detenute all’interno delle mura del Pagliarelli?
Il lavoro della Compagnia Oltremura all’interno dell’Istituto Penitenziario “Pagliarelli” nasce nel 2015 da un incontro fortuito al termine di un mio spettacolo con la dott.ssa Maria Grazia Farruggia, un funzionario giuridico-pedagogico dell’Istituto che crede nel carcere come luogo di produzione artistica e culturale. Durante la mia formazione a Firenze con Alessandro Fantechi ed Elena Turchi avevo conosciuto il teatro con i non attori e avevo vissuto l’esperienza di uno spettacolo con i detenuti portato in scena nella casa circondariale di Prato. Sapevo dentro di me che prima o poi avrei intrapreso questo percorso e quell’incontro mi convinse che era arrivato il momento.
Ho cominciato giovanissima, inizialmente da sola, sorretta soltanto dal desiderio di sperimentare e di mettermi in gioco, partendo dall’idea di un teatro d’arte al servizio della persona e della comunità.
Muovendomi tra mille difficoltà – con poche donne, in spazi molto angusti e con il timore di non trovare la giusta strada – ho iniziato i primi incontri mettendomi in ascolto dei racconti delle detenute, cercando di far emergere emozioni, vissuti ed esperienze su cui incominciare a lavorare. È stata un’esperienza potentissima.
Con il tempo ho imparato cosa significa condurre un laboratorio teatrale all’interno di un carcere a partire dalla capacità di adattamento e di flessibilità in un situazione dove tutto può cambiare inaspettatamente (può esserci un trasferimento, una scarcerazione) e bisogna essere pronti a rimodulare o a ricreare il lavoro in pochissimo tempo.
Intanto il progetto cresceva: il numero delle detenute-attrici era in continuo aumento (in questi anni ha visto il coinvolgimento di circa duecento detenute di diverse nazionalità dai 18 ai 65 anni) e tanti artisti (siciliani e non) hanno iniziato a collaborare con il progetto: Marcella Vaccarino, in qualità di attrice e di assistente nella conduzione del laboratorio; il fotografo Francesco Paolo Catalano, come assistente di regia, e un gruppo di attori, scenografi, musicisti tra cui Gabriella D’Anci, Gaia Quirini, Giuseppe Accardo.
Dal 2016 abbiamo realizzato spettacoli rappresentati all’interno del carcere e presso il Teatro Stabile Biondo di Palermo che da quest’anno è partner di progetto insieme alla Fondazione Peppino Vismara di Milano.
Quando avete deciso che era arrivato il momento di portare in scena i vostri spettacoli?
Nel 2016, dopo quasi due anni di lavoro, il primo spettacolo Di quel poco e del niente, ha raggiunto la sua maturità e così abbiamo deciso di portarlo in scena al Teatro Biondo. Ispirato a Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estès, lo spettacolo racconta storie di rinascita, di ricerca d’identità e di riscoperta della femminilità, fondendo realtà e finzione scenica.
Nel 2018 nasce In stato di grazia, la seconda produzione della Compagnia, liberamente ispirato a La lunga via di Marianna Ucrìa di Dacia Maraini.
Marianna, madre che piange la morte del figlio, moglie che cerca la via di fuga dalla costrizione, rincorre il tentativo di andare oltre se stessa, di sentirsi altrove per poi trovarsi nuovamente «immutata e replicabile come carta ricalcabile».
In una intervista che ha rilasciato per Oltremura, Dacia Maraini (che ha incoraggiato e sostenuto il nostro lavoro) dice: “Marianna è una sordomuta in un mondo repressivo che considera i sordomuti incapaci di intendere e di volere e li rinchiude in manicomio. Da lì nasce la sua voglia di libertà: lei non sente, però vede, non ha la capacità di dialogare con gli altri, ma arriva quasi a un dialogo muto. Marianna cerca la libertà nonostante i legami, intesi come chiusura, censura e tabù. Non solo il cancello o la porta chiusa, ma le porte chiuse che sono dentro di noi”.
Anche in questo caso lo spettacolo diventa momento di verità e di riflessione sulla condizione delle attrice-detenute: difficile dire dove finisce la vita di Marianna e comincia la loro autobiografia.
In stato di grazia non ha potuto partecipare alla Rassegna Nazionale di Teatro in Carcere “Destini incrociati” per la quale era stato selezionato. Ancora una volta la vostra Compagnia ha dovuto confrontarsi con limiti e divieti. Ci racconti come è andata?
A dicembre scorso In stato di grazia, subito dopo essere andato in scena al Teatro Biondo, è stato selezionato per partecipare alla sesta edizione del festival Destini incrociati – promosso dal Coordinamento nazionale Teatro in Carcere e dalla Compagnia Voci Erranti – unica rassegna di teatro in carcere sul territorio nazionale. La partecipazione a Destini Incrociati per noi era molto importante in quanto ci consentiva di uscire fuori dalla Sicilia e di avere la possibilità di mostrare a un pubblico diverso il nostro lavoro, come una vera compagnia: gli spettacoli prodotti in carcere, per ovvie ragioni, spesso muoiono dopo poche repliche.
Appresa la notizia, abbiamo deciso di sospendere le prove della nuova produzione e di rimetterci a lavorare su In stato di grazia. Dopo due mesi di duro lavoro, con sole due delle attrici della prima produzione che già lo conoscevano (nel frattempo quasi tutta la compagnia era cambiata), abbiamo rimesso in piedi lo spettacolo. Ma a soli cinque giorni dalla partenza è arrivato il no della Magistratura. La delusione per tutta la Compagnia è stata fortissima! Il 13 dicembre, il giorno previsto per lo spettacolo, è stato proiettato il video integrale di In stato di grazia alla presenza mia e di alcuni collaboratori. Ovviamente non è stata la stessa cosa, ma è stato sorprendente vedere il teatro (il bellissimo Teatro Milanollo di Savigliano) pienissimo e il pubblico ugualmente coinvolto. Abbiamo sentito forte la vicinanza di organizzatori e partecipanti e soprattutto del presidente di Teatro in Carcere, Vito Minoia. Le nostre attrici hanno ricevuto una lettera di sostegno della compagnia di attrici-detenute della Casa Circondariale Sollicciano di Firenze.
A maggio la Compagnia avrebbe dovuto debuttare (il condizionale è usatissimo ultimamente) al Teatro Biondo con un nuovo spettacolo ma la chiusura per la pandemia ha fermato tutto. In quale fase di lavoro vi ha colto?
Eravamo in piena fase di creazione e di elaborazione drammaturgica che, come al solito, avviene in itinere grazie al contributo di tutti. Dopo la fine di In stato di grazia ci siamo chiesti dove fosse diretta Marianna Ucrìa con la sua valigia e con la sua ombra al seguito. Abbiamo immaginato che Marianna iniziasse un viaggio all’interno di se stessa per scoprire le tante anime che l’abitano. Ci interessava riflettere sul cambiamento della realtà a seconda del punto di vista dal quale la si osserva e su come essa si modifica in seguito all’apprendimento di nuove conoscenze. Avevamo letto il Mito della Caverna da La Repubblica di Platone e Flatlandia di Edwin Abbott Abbott, il racconto fantastico di un ipotetico universo bidimensionale che entra in contatto con un universo a più dimensioni. Così Marianna è diventata una donna spillo in un mondo bidimensionale, costretta, come tutte le donne di Flatlandia, a un moto perpetuo e all’osservanza di regole di un mondo preconfezionato, gerarchico, rigido che non lascia spazio all’espressione dell’individuo. Cosa la porta a rompere questa bidimensionalità e a scoprire la terza dimensione? Forse il ricordo o forse la curiosità. Nella nuova dimensione – spaventosa e tutta da scoprire – incontrerà le tante parti di sé sconosciute e ogni nuova scoperta modificherà la sua prospettiva.
Stavamo iniziando a lavorare sui corpi, sui suoni, a costruire immagini in una narrazione che non si chiude nella linearità di una sola storia ma aperta a infinite interpretazioni, quando a metà febbraio tutto si è fermato.
Che cosa ha significato per la vostra Compagnia questo stop forzato? Personalmente tu come l’hai vissuto?
Eravamo completamente immersi nel nuovo lavoro che avrebbe dovuto debuttare a maggio quando il lockdown ha prodotto una brusca interruzione dei contatti e dei rapporti. Ritrovarmi di colpo lontana da quello spazio e da quel tempo che riempiva le mie giornate, è stato per me un colpo durissimo: trovarmi nell’impossibilità di sentire le mie attrici ha amplificato moltissimo il senso di isolamento e di distanza. Quello che ha significato per loro questa interruzione ho potuto solo immaginarlo. Ho dovuto riorganizzare del tutto la mia quotidianità ma a poco a poco il vuoto che si era generato dentro di me ha creato uno spazio per nuovi progetti.
All’inizio della quarantena avete deciso di reagire e vi siete mossi nel segno della progettualità con un’iniziativa che in qualche modo ha rappresentato una prosecuzione dell’attività di Oltremura. Ce la vuoi raccontare?
L’iniziativa è nata dall’idea che l’arte non potesse ignorare quello che stava succedendo e la situazione estremamente dolorosa che stavamo vivendo. In continuità con il progetto, insieme a Francesco Paolo Catalano, abbiamo lanciato la call #Libereincamera-Esercizi di creazione collettiva coinvolgendo le donne che ci seguono sui canali social (Facebook e Instagram) utilizzando la stessa modalità di intervento di Oltremura che parte sempre dall’ascolto dei luoghi in cui si opera e dalla loro ri-significazione, mettendo al centro la persona, non il personaggio.
Il tema di Libere in camera-Esercizi di creazione collettiva riguardava la trasformazione di sé e dello spazio domestico durante la quarantena: una ricerca poetica attraverso la produzione di fotografie e/o testi con l’obiettivo di creare una galleria multimediale di donne che trasformano il loro ambiente quotidiano in un luogo di immaginazione, immerse in una realtà “altra” di cui sono le protagoniste.
Ho presentato #Libereincamera su #foyerinsalotto, la rubrica digitale del Teatro Biondo Palermo, con la partecipazione della direttrice Pamela Villoresi che ha dato il suo contributo alla call. Rimasta aperta dal 29 marzo al 4 maggio, l’iniziativa ha ricevuto quasi 60 risposte da diverse città (Palermo, Catania, Marsala, Roma, Bologna, Lecce, Milano, Buenos Aires, Madrid) ed è stata molto seguita sui social (i post su fb hanno ottenuto 12.500 visualizzazioni).
Come si evolverà questo progetto? Qual è l’uso che farete di questo materiale?
Oggi lavoriamo al Secondo esercizio di creazione collettiva: un laboratorio relazionale a distanza che mette in comunicazione le donne che da diversi Paesi hanno risposto alla call. Abbiamo spedito ad ogni partecipante una delle foto ricevute in formato cartolina chiedendo di scrivere una lettera (rigorosamente a mano) alla propria “ombra” e di spedirla a un’altra delle partecipanti che risponderà con un video di 15 secondi basato sulle suggestioni derivate dalla lettera ricevuta. Questo “esercizio” è teso a creare una relazione fra le storie di tre donne che non si conoscono e che, durante un periodo di chiusura dei confini e di ridefinizione dei rapporti, danno vita a una narrazione corale e autobiografica che privilegia un tono intimistico, quasi confessionale.
La destinazione finale di questa seconda fase di Libere in camera è una galleria di testi, foto e video che troveranno una collocazione sia in un libro multimediale collettivo sia in una mostra aperta alla comunità.
Che futuro intravedi per la tua Compagnia? Oltremura tornerà tra le mura del Pagliarelli?
Oltremura tornerà al Pagliarelli appena sarà possibile. È lì il nostro lavoro, è nato lì e abbiamo ancora tantissime cose da realizzare. Stiamo lavorando affinché si creino le condizioni per far girare i nostri spettacoli. Ma Oltremura vuole andare fuori: vogliamo metterci in ascolto di altri spazi, per ridefinirli e per creare nuovi visioni e per tirare fuori il potenziale di bellezza che è in ciascuno di essi e nell’umanità che li abita.