ELENA SCOLARI | A Venezia, vicino alla Basilica dei Santi Giovanni e Paolo nel sestiere Castello, c’è la Corte Sconta (che vuol dire nascosta). Corte sconta detta arcana è anche il titolo di una delle più sognanti avventure di Corto Maltese, l’enigmatico marinaio inventato da quel geniaccio lagunare di Hugo Pratt. Quella Corte è un luogo incantato, dal quale si parte per viaggi impossibili. E un viaggio impossibile è forse anche quello immaginato da Antonio Latella per la sua quarta e ultima direzione artistica della Biennale Teatro. Il regista intitola l’edizione 2020 Nascondi(no) e la dedica al tema della censura: chiede ai 27 gruppi che vi partecipano di lavorare sul fatto che “la censura esista benché abilmente nascosta” (anch’essa censura se stessa, dunque?), dichiara nella conversazione con Federico Bellini pubblicata sull’usuale catalogo monstrum della manifestazione.
Viaggio forse impossibile perché, come sostiene con arguzia scaltra Leonardo Manzan nel suo Glory Wall (vincitore del premio per il miglior spettacolo, decretato da una giuria di soli stranieri), per trattare in teatro il tema della censura si crea inevitabilmente un corto circuito, un paradosso per cui l’azione stessa diventa inagibile: fare uno spettacolo censurabile e che quindi verrebbe oscurato non potendosi mostrare a nessuno, oppure parlare di censura in modo incensurabile quindi – di fatto – non toccare il tema, oppure ancora ricorrere alle parole e ai gesti di chi (l’abusato Giordano Bruno o lo sfruttato Pasolini) si è davvero sacrificato per la libertà d’opinione, ed è quindi stato censurato, per la vita. O dando la vita. Insomma, comunque un fallimento.
E così, con una tecnica astuta ma certo non nuova, Manzan finge di discutere un sistema del quale è in realtà connivente, deride l’istituzione essendone parte accolta. Anche il suo originale Cirano deve morire dell’edizione 2019 iniziava con un’irritante invettiva rap fatta di improperi contro pubblico e Biennale. L’attacco è quindi arma che sta diventando cifra del giovane autore. Stare fuori ma che più dentro non si può è proprio quello che fece anni fa anche l’artista Maurizio Cattelan quando mise il suo Tamburino sul tetto del Louvre: non voglio entrare nel sistema ma mi ci siedo sopra, ottenendo la maggior visibilità. Irriverente e comodo.
Nessun attore visibile in scena, Glory wall omaggia i muri erotici nei cui buchi si infila il membro per farsi trastullare dalla professionista al di là della parete. Anche qui c’è un muro che nasconde i perfomer, saltano dei tappi ed escono le mani a fare azioncine irridenti: passarsi il ponderoso catalogo verde della Biennale, tendere una sigaretta in attesa che qualcuno dal pubblico la accenda, roba così.
La voce di Paola Giannini, sicura e ironica, dialoga con alcuni spettatori (attori) tra il pubblico, richiesti di impersonare proprio Giordano Bruno, Pasolini e De Sade (le battute scorrono proiettate sul muro come in una specie di karaoke recitativo) fino ad arrivare, abbastanza inspiegabilmente, ad Albano Carrisi e a Felicità. Anche qui non ci è risparmiato il momento nazionalpopolare. E ormai non è più chiaro se si tratti di stanco snobismo o di sdoganamento altrettanto frusto.
Glory wall è una trovata intelligente, c’è dello spirito ma dura troppo perché le punture siano davvero velenose ed è studiato come un “site specific” all’interno della Biennale; fuori di lì – se ci andrà – perderà di causticità.
Anche in questo caso, un giochino.
Ci si sforza di inventare situazioni che oggi si chiamano immersive, di far riflettere il pubblico sui processi produttivi mettendoci dentro lo spettatore, “ingaggiato” suo malgrado. Va bene tutto, come sempre specialmente per chi è nuovo a esperienze teatrali come queste che (beati loro) trovano insolite. Ma siamo certi che dietro queste impalcature, montate più o meno bene, si nasconda un edificio in costruzione e non si trovi invece un cantiere vuoto?
L’impressione, decisa, è che drammaturgie originali come quelle descritte (di altre diremo nel prossimo articolo sul festival veneziano) siano più che altro decorative e perimetrali rispetto a un centro che sfugge.
Chiaro e ben architettato è invece il lavoro di Liv Ferracchiati su Platonov (menzione speciale), il primo testo di Čechov (pubblicato postumo) in cui sono già contenuti molti dei germi che il drammaturgo svilupperà lungo tutta la carriera. Ferracchiati è in un angolo del palco, in abiti moderni, rema su un vogatore di legno, mentre in scena inizia il primo atto di Platonov, attori in costume. È subito evidente l’dea di un Platonov accerchiato dalle donne, dai personaggi femminili che lo opprimono e lo strattonano sfruttando la sua indolenza e il suo essere incline all’inazione. Il regista e autore è “il Lettore” del testo, ha interrogato prima se stesso e ora incalza i personaggi con i suoi dubbi, le sue ossessioni biografiche, parla con loro rendendo l’opera attuale, non perché la sposti temporalmente ma perché la fa vivere inserendo le domande universali che i classici – se sono tali – contengono in sé, in tutte le epoche.
Il protagonista è un maestro elementare, stimato come uomo brillante ed eccentrico, del quale sono innamorate sia la proprietaria terriera Anna Petrovna sia una passionale ex compagna di università, Sofja; il rapporto più tiepido è quello con la moglie. Tutto sommato questo intreccio diventa qui un pretesto per tessere una trama più articolata, fatta di continui rimandi ai quesiti del Lettore, cui i personaggi finiscono per rivolgersi direttamente per chiedergli “una vita nuova”.
Bellissima l’idea dei costumi fatti di carta perché questi tipi umani sono costretti dentro le pagine del dramma, donne vitalissime fruscianti e “incartate” dentro una storia che si ripete e della quale sono invece oggi in grado di immaginare risvolti diversi in un mondo diverso, in cui i rapporti tra maschi e femmine sono cambiati e dove i ruoli potrebbero assumere tutt’altro peso. Ferracchiati prende in giro il professore: La tragedia è finita, Platonov, gli dice, non solo col titolo dello spettacolo ma con lo humour sottile e sferzante che punteggia le loro conversazioni, spalleggiate con brio sagace e sfacciato dalle signore.
Alcuni nei, però, ci sono: una regia non sempre nitida nei ritmi e nel respiro dello spettacolo; un’ambiguità di segni: lo spazio i cui si muovono i personaggi del dramma è un rettangolo visibilmente delimitato da una linea bianca, inizialmente il Lettore ne sta fuori ma già parla con le creature letterarie, quando poi varca il confine continua a comportarsi nello stesso modo, se non per una vaga nota di coinvolgimento in più; ci sono tre finali, e il primo sarebbe stato il migliore.
Un testo intelligente e “ragionato”, ben abitato da tutti gli interpreti (Francesca Fatichenti, Liv Ferracchiati, Riccardo Goretti, Alice Spisa, Petra Valentini, Matilde Vigna), mossi da una carica tangibile e trascinanti nel loro desiderio di tuffarsi fuori da un destino cartaceo. Viene voglia di tender loro la mano.
THE RIGHT WAY
creazione e regia Daniele Bartolini
con Maddalena Vallecchi Williams, Michele Smith, Dean Gilmour
collaborazione Michele Andrei
allestimento Matteo Ciardi
produzione DopoLavoro Teatrale (DLT) e Stazione Utopia
Cà Giustianian, Sala delle Colonne
GLORY WALL
di Leonardo Manzan, Rocco Placidi, Paola Giannini
regia Leonardo Manzan
scene Giuseppe Stellato
produzione Centro di Produzione Teatrale La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello/Elledieffe
Teatro alle Tese, Arsenale
LA TRAGEDIA È FINITA, PLATONOV
di Liv Ferracchiati
con scene da Platonov di Anton Čechov
con Francesca Fatichenti, Liv Ferracchiati, Riccardo Goretti, Alice Spisa, Petra Valentini, Matilde Vigna
aiuto regia Anna Zanetti
dramaturg Greta Cappelletti
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
Teatro alle Tese, Arsenale